L’immagine del profeta


La Hamline University è l’università più antica del Minnesota, fondata nel 1854 da un vescovo metodista nel centro delle Twin Cities, a Saint Paul, al di là del fiume Mississippi che divide la città dalla sua gemella Minneapolis.

Hamline, che è un ateneo privato, da qualche settimana è finita al centro della cronaca nazionale per un caso che riguarda una lezione di storia dell’arte mondiale tenuta lo scorso 6 ottobre da Erika López Prater, una professoressa a contratto, che durante un collegamento online ha mostrato ai suoi studenti questa immagine.

È una miniatura di grande importanza per l’arte: raffigura l’angelo Gabriele che consegna al profeta Maometto le rivelazioni di Allah, e appare in quella che è stata definita la prima storia del mondo, Jāmiʿ al-tawārīkh (“Compendio delle cronache”), l’ambiziosa opera risalente al 14esimo secolo dello storico islamico persiano Rashid al-Din.

Tornando ai giorni nostri, però, questa è anche l’immagine per cui López Prater non insegnerà più a Hamline. Per capire perché, bisogna rifarsi a una diatriba millenaria interna al credo islamico: quella sulle immagini che raffigurano Maometto, viste da alcuni credenti come passibili di idolatria, e come tali proibite.

La cronaca del caso, nella sua forma più asciutta, è semplice: per evitare mancanze di rispetto, la docente aveva inserito nel programma del suo corso un content warning, come si dice oggi, avvisando gli iscritti che durante le lezioni sarebbero state mostrate immagini di figure sacre, come Maometto e Buddha; poi quel giorno di ottobre, prima di mostrarla, ha ribadito al suo uditorio cosa stava per succedere, in caso qualche studente musulmano preferisse abbandonare temporaneamente l’aula virtuale.

López Prater riferisce che nessuno ha scelto di farsi da parte. Ma dopo la fine della lezione Aram Wedatalla, studentessa sudanese laureanda in economia e presidente della Muslim Student Association dell’ateneo, l’ha contattata per esprimerle il suo disagio. Poi Wedatalla ha scritto anche alla direzione accademica e quattro giorni dopo la docente è stata contattata dalla preside delle facoltà umanistiche, la quale ha paragonato l’inserimento dell’immagine maomettana nel corso all’uso del più famigerato degli epiteti razzisti; due settimane dopo, Hamline aveva tagliato i suoi rapporti con l’esperta di storia dell’arte.

Nel frattempo sono successe cose interessanti: il 7 novembre David Everett, che a Hamline riveste il ruolo di «vicepresidente per l’eccellenza inclusiva», ha inviato un’email a tutto il personale accademico spiegando che quanto successo durante una lezione recente era stato «innegabilmente avventato, irrispettoso e islamofobico» e dando appuntamento a tutti a un «forum sul tema dell’islamofobia» per il successivo 8 dicembre; all’iniziativa ha poi partecipato anche la stessa Wedatalla, che ha descritto in lacrime l’accaduto e ha detto di essersi sentita ostracizzata dalla sua comunità.

Jaylani Hussein, direttore dell’ala minnesotiana del Council on American-Islamic Relations, un gruppo pro-Islam, è salito sul palco dell’evento di riparazione per denunciare un atto che ha «ferito» gli studenti. Mark Berkson, professore di religione a Hamline, è andato controcorrente: ha obiettato alzando la mano dal pubblico che non c’è affatto concordia – nemmeno nel mondo musulmano, né in quello degli storici dell’arte islamica – sul carattere proibito delle rappresentazioni di Maometto (e se è per questo è stato lo stesso vice di Hussein, Edward Ahmed Mitchell, a distinguere tra «non islamico» e «islamofobico»: «Se bevi una birra di fronte a me stai facendo una cosa non islamica, mica islamofobica»). Parlando al New York Times, in un articolo a cui ho largamente attinto fin qui, Berkson ha poi spiegato il motivo del suo intervento:

Ci è stato chiesto di prendere per buono, senza farci domande, che ciò che la nostra collega ha fatto – insegnare un capolavoro di arte islamica in un corso di storia dell’arte dopo aver dato molteplici avvertimenti – era in qualche modo equivalente al vandalizzare le moschee, alla violenza contro i musulmani e all’incitamento all'odio.

L’aspetto più assurdo della storia è proprio la linea tenuta dai dirigenti della Hamline University: la presidente di Hamline, Fayneese Miller, ha co-firmato una lettera al corpo studentesco in cui comunicava che «il rispetto per gli studenti musulmani osservanti in quella classe avrebbe dovuto prendere il posto della libertà accademica», per poi insistere sulla priorità da accordare al non rischiare di offendere le sensibilità degli altri.

Nel caso di Erika López Prater, però, «offendere» era evidentemente l’ultimo degli intenti: ha mostrato arte durante una lezione di arte, facendosi il giusto scrupolo di avvisare per tempo chi avrebbe potuto avere da ridire. Se un’università rimpiazza – per usare i termini della sua dirigente – la libertà pedagogica con la resa a dinamiche settarie irragionevoli e controverse (alcuni esperti di arte islamica riconducono il divieto di rappresentare Maometto a recenti forme conservatrici di Islam, e altri musulmani si sono detti offesi dalla censura di Hamline, non dalla professoressa), difficile immaginare che ne verrà fuori qualcosa di buono.

L’Hamline Oracle, il giornale degli studenti dell’ateneo di St. Paul, dopo i fatti aveva inizialmente ospitato un commento del preside della facoltà di religione che criticava la scelta di Hamline, per poi rimuoverlo dal suo sito spiegando che uno dei suoi principi cardine è «minimizzare il male» sofferto dagli studenti (la critica è poi ricomparsa a un mese dal suo ritiro, quando la storia è diventata materia di scontro nazionale).

Quello dell’harm (il male dannoso, appunto) è un tema: cosa non è harm, se lo è anche ospitare una discussione sul presunto harm causato dalla breve apparizione di una miniatura islamica che celebra Maometto in una lezione universitaria? E come possiamo evitare di fare il male, se anche prendere ogni accortezza per disinnescarlo non basta a non generare vittime?

Un commento fondamentale e centrato sulla vicenda l’ha fatto Todd Green, autore di libri sull’islamofobia (quella vera), che ha detto che lo stallo alla messicana di Hamline – nel frattempo rimasticato dalle onnipresenti propagande dei nostri tempi – è «tragico» nella misura in cui finisce per mettere uno contro l’altro due fronti che dovrebbero essere alleati: l’Islam e coloro che lo studiano e mirano a esorcizzarne la resa stereotipata, intollerante e monodimensionale.

Storie come questa vengono ormai inquadrate di default in narrazioni asfittiche e precotte: «La dittatura del politicamente corretto!»; «le università schiave della wokeness!». Eppure io – che ormai un po’ ci ho fatto l’occhio, diciamo – penso che in ballo ci sia molto di più, a partire dalle dinamiche di potere e da ciò che orbita attorno ai diritti del lavoro.

Anche negli Stati Uniti è in atto da anni una precarizzazione sistematica delle professioni accademiche: significa che tutte le Erika López Prater con contratti a termine si ritrovano in balia di incidenti di percorso come questo, gestiti da capi opportunisti e ignavi come quelli. Come ha commentato un docente di storia della University of Minnesota, David Perry:

Un’aula è uno spazio teso in cui, se l’insegnamento è buono e pertinente, a volte incontreremo cose che scuotono la nostra visione del mondo. La questione è come reagiscono le persone che detengono il potere in questi momenti.

Non significa che la studentessa abbia “fatto bene” a rendere il suo personale motivo di disagio un’arma contundente, ovvio. Ma ciò che fa uno studente ventenne ha un peso, mentre ciò che decide un amministratore di mezza età ne ha uno diverso: perché i secondi sembrano più ottusi dei primi?

Ci si può legittimamente chiedere come (e dove) si starebbe parlando di questa storia se la studentessa in questione fosse stata una cattolica praticante mortificata da un rimando sessuale in un dipinto classico, certo, ma il nocciolo della vicenda riguarda anzitutto i sistemi di potere e le loro vittime collaterali.

Anche perché, non troppo lontano dal Minnesota, a mettere il bavaglio ai professori e a censurare i corsi sono direttamente le istituzioni: come accade in Florida, dove il probabile candidato repubblicano alla presidenza del 2024 Ron DeSantis ha creato una caccia alle streghe imperniata attorno al suo «Stop Woke Act», un impianto legislativo reazionario che mette de facto fuorilegge anche le più innocue lezioni che gravitano nel campo delle riletture sociali e culturali antirazziste, e che incoraggia attivamente gli studenti a rendersi delatori al servizio dello Stato, il tutto sulla pelle dei professori senza contratto.

Il «politicamente corretto», si diceva, no? Well, it’s more complicated than that.

Altre news dal fronte

  • Il dipartimento di scienze sociali della University of Southern California non userà più la parola field («campo», inteso di studi) nella sua comunicazione ufficiale, per via delle possibili «connotazioni razziste» e schiaviste della suddetta;
  • Kenneth Roth, che ha diretto l’ong Human Rights Watch per 29 anni, si è visto negare un ruolo al Carr Center for Human Rights Policy di Harvard che gli era già stato offerto: all’università non sono andate giù le critiche della sua ex organizzazione al colonialismo israeliano;
  • La risposta di Tony Dungy, ex giocatore professionista della Nfl, a una rivista di scienza che da tempo cerca di farsi bella con un virtue signalling sperticato.

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