Prove tecniche di guerra civile

Ehi ciao, sono Davide Piacenza e sì, questa è la mia celebre [citazione necessaria] newsletter Culture Wars, che ogni venerdì parla di casi in cui i nuovi codici e i discorsi intorno al politicamente corretto riplasmano il mondo, in Italia e all’estero. Figo, eh? Speriamo.

Ti ricordo che, come da statuto dell’associazione dopolavoristica che la governa, qui sono proibite banalità, formule vuote, superficialità, escandescenze e dileggiamenti un tanto al chilo. Iniziamo? Iniziamo.


Cosa rimane del 6 gennaio

«A battle for the soul of America», una battaglia per l’anima americana: così il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha definito la situazione politica d’oltreoceano, parlando al Congresso a un anno dall’attacco al Campidoglio dei sostenitori del suo predecessore, Donald Trump. Un discorso duro, sentito, tra i più importanti – se non il più importante – pronunciati da Biden nei suoi dodici mesi di presidenza. E non è un caso: la politica statunitense non è mai stata così delegittimata, precaria, appesa a un filo.

Sbaglieremmo a pensare al 6 gennaio – o J6, come viene abbreviato oggi – come a un fatto isolato e irripetibile: se anche Trump (per ora) se n’è andato, infatti, il trumpismo è ben presente, e ha messo radici che hanno fatto presa nel terreno. Se si pensava che dopo una tale orribile espressione di violenza i conservatori moderati avrebbero rapidamente messo nell’angolo suprematisti e militanti armati, a un anno di distanza il 70% degli elettori Repubblicani è ancora convinto che Joe Biden abbia rubato la presidenza a Donald Trump. E la folla che urla chiedendo la testa di Mike Pence non è uno scheletro nell’armadio del Gop: è un fatto storico apertamente celebrato da politici e militanti, come fosse un nuovo Boston Tea Party. Il messaggio è passato, l’anomalia ha un precedente. Gli assalti al Congresso e le corna degli sciamani – oggi lo sappiamo – sono stati parte di una strategia decisa a tavolino dalla destra a trazione trumpiana: le cronache ci hanno mostrato che Trump stesso si è più volte rifiutato di mettere fine alle violenze in corso a Washington, quando gli sarebbe bastata una parola per placare l’ira dei manifestanti.

Una centrata analisi della rete Abc, pubblicata in questi giorni, ci porta dietro le quinte del tentato golpe, provando oltre ogni dubbio che è fallito per poco, grazie alle scelte individuali di Repubblicani come il vicepresidente Mike Pence, che si è rifiutato di dichiarare illegittimi i grandi elettori conquistati da Biden, o il segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger, che ha opposto il suo niet alla produzione di voti falsi per far vincere il suo Stato a Trump. Bastava che uno di loro cedesse, e il sistema democratico sarebbe collassato su se stesso.

Nel suo The Next Civil War (Simon & Schuster), il giornalista e romanziere Stephen Marche fa da Virgilio in un lungo e approfondito viaggio attraverso un Paese mai così polarizzato e ostaggio dei suoi estremismi. «Il 6 gennaio non è stato un campanello d'allarme: è stato un grido di battaglia», ha scritto Marche. Nel suo preoccupante ritratto, il sistema partitico è diventato del tutto ininfluente, dato che «il problema non è chi si trova al potere, ma la strutturazione stessa del potere». Nemmeno ai tempi del Vietnam e degli assassinii di Kennedy e Luther King la fiducia nelle istituzioni in America era stata così drammaticamente bassa, spiega l’autore, anche perché la maggior parte della destra ha «perso ogni fiducia nei confronti del governo in quanto tale» (e non è difficile immaginare che qualcosa di simile – pur con le dovute differenze – stia avvenendo anche alle nostre latitudini, dove una percentuale consistente di elettori della Lega salviniana non può che aver subito i contraccolpi della “normalizzazione" del loro partito nel governo Draghi).

E non bastasse: le infiltrazioni di suprematisti bianchi e altri potenziali terroristi di destra sono sempre più comuni fra le forze dell’ordine e i militari americani, la composizione del Senato sarà presto determinata da 8 Stati che ospiteranno metà della popolazione nazionale, portando la rappresentanza democratica a un minimo storico, e poi... la sinistra non sembra minimamente in grado di far nulla. Scrive Marche:

Ci sono liberal che conservano un'ingiustificabile fiducia nel fatto che le loro istituzioni possano salvarli, anche quando è del tutto chiaro che non possono. Poi ci sono i woke, élite accademiche e politiche dedite a un discorso volutamente impotente. Qualsiasi istituzione fondata dai woke semplicemente si divora da sola – vedi TimesUp, la marcia delle donne, eccetera – rendendosi irrilevante per chiunque eccetto un gruppo sempre meno nutrito di addetti ai lavori che passano la maggior parte del loro tempo a capire come fare a pezzi chi è rimasto. Si rendono impotenti da soli più velocemente di quanto possano fare i loro nemici.

Nel mentre, sostiene l’autore, la destra ha capito ciò che la sinistra tarda a capire: che il sistema sta andando a pezzi, come il 6 gennaio ci ha mostrato con grandi effetti speciali. E, diversamente dalla sinistra, la destra ha un piano: usare la violenza e le alleanze di comodo per sovvertire la democrazia e prendere il potere. Un piano che, peraltro, sta già mettendo in atto da anni, normalizzando i discorsi d’odio e creando proseliti con bislacche teorie del complotto come QAnon.

Suona tutto molto confortante, no?

C’era una volta un razzista

E. O. Wilson (Wikimedia Commons)

Uno dei punti deboli di una parte del progressismo odierno è la facilità con cui affibbia etichette, pur affermando di volerle finalmente rimuovere per realizzare una società più giusta. Un paradosso ben esemplificato da un caso recente che ha fatto discutere molti esponenti della società scientifica: Scientific American, influente testata americana di settore, ha pubblicato nella sezione delle opinioni del suo sito un commento sull’eredità di Edward Osborne Wilson, l’importante biologo scomparso pochi giorni prima.

Wilson è stato il fondatore de facto della sociobiologia, la disciplina che prende in prestito le teorie evoluzionistiche di Darwin per interpretare i comportamenti sociali delle specie analizzandone la genetica, e nella sua lunga vita ha dato vari contributi determinanti al mondo della scienza: dalle basi evoluzionistiche delle società umane alla scoperta della chimica con cui le formiche comunicano fra loro, e dagli studi sugli habitat animali a quelli sulla biodiversità e la necessità di preservarla. Era professore emerito ad Harvard.

Scientific American gli ha dedicato un articolo dallo svolgimento rozzo, ma con una tesi forte: si intitola «la complicata eredità di E. O. Wilson», ed è stato scritto da Monica R. McLemore, professoressa associata alla University of California, San Francisco. McLemore, che è nera, ha scritto tra le altre cose:

Il suo influente testo Sociobiology: The New Synthesis ha contribuito alla falsa dicotomia natura contro cultura e ha generato un intero campo di psicologia comportamentale fondato sulla nozione che le differenze tra gli esseri umani possono essere spiegate dalla genetica, dall'ereditarietà e da altri meccanismi biologici. Scoprire che Wilson la pensava in questo modo è stata un'enorme delusione, perché mi era piaciuto il suo romanzo Anthill, che è stato pubblicato molto più tardi e scritto per il pubblico.

Va precisato che non è la prima volta che Wilson viene accusato apertamente di «razzismo» (una parola che compare 9 volte nell’articolo): nella sua carriera alcuni colleghi e studenti hanno visto nei suoi studi una negazione delle teorie, scientifiche e non, per cui il comportamento umano è anzitutto il risultato delle organizzazioni sociali ed economiche in cui si trova a crescere, e il dibattito in merito nel mondo della scienza non si è ancora esaurito.

L’articolo in questione, però, non fornisce una singola evidenza del presunto razzismo del biologo evoluzionista: si limita a invitare a «rivalutare e criticare» Wilson e altri scienziati, saltando da uno agli altri senza entrare nel merito di ciò che hanno detto o sostenuto. In Sociobiology, peraltro, la parola «razza» non appare affatto: l’autore si limita a speculare su come e quanto l’evoluzione umana possa aver influenzato alcuni tratti degli uomini e le donne contemporanee.

La biologia fa i dovuti distinguo tra chi pensa che le differenze fra le persone possano essere influenzate anche da fattori genetici, e chi invece gratta gratta, sposa l’eugenetica da quel retrogusto nazista. E un conto è fare disamine e critiche puntuali di questo approccio scientifico (ne esistono diverse, e rigorose); un altro buttare nel calderone accuse di «razzismo intrinseco» a un’intera disciplina, peraltro di fronte a uno scienziato appena deceduto che sul tema aveva preso posizioni molto nette, e opposte a quelle lasciate intendere dall’autrice dell’articolo.

Tanti esponenti del mondo della scienza hanno reagito alla pubblicazione, tra professori, ricercatori e semplici appassionati che hanno visto nel pezzo di McLemore l’ennesimo sintomo di un piano inclinato in cui i fatti e il pensiero critico sembrano diventati un peso di cui disfarsi, in favore di una più brillante meta-narrativa millenaristica capace di prenderne il posto alla bisogna.

Tra le tante reazioni (vi basta cercare «@sciam Wilson» su Twitter, per cominciare), mi ha colpito per senso di misura, dignità e amore per la sua professione di indagatore della conoscenza questo tweet dello psicologo e genetista Eric Turkheimer, e mi piacerebbe poter ripartire da qui:

Altre news dal fronte

  • Il vostro qui presente affezionatissimo ha debuttato su Esquire, scrivendo del grande e stronzissimo Norman Mailer, e di tutti quei giornaloni e giornalini che hanno scritto che sta per venire “cancellato”: non è proprio così, ma di cose di cui parlare nella vicenda che riguarda lo scrittore ce ne sono, a volerlo fare;
  • La corte di Bristol, in Inghilterra, ha archiviato ogni accusa nei confronti delle quattro persone che lo scorso giugno avevano rimosso e gettato nel porto della città una statua dello schiavista Edward Colston, durante una manifestazione di Black Lives Matter. Mia opinione: è una buona notizia;
  • Oggi potremmo ancora pubblicare Einstein? (NO, la cancel culture non c’entra, smettetela, basta).

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