Il coast-to-coast polarizzato


Negli Stati Uniti, il centro nevralgico di ogni contrapposizione sui temi di attrito contemporanei, le culture wars si giocano anzitutto nello spazio dei campus universitari, che da tempo sono il terreno di coltura di teorie radicali, nuove sensibilità e vecchie reazioni.

In questo senso, il continuum che va dalla sinistra più (occhio, ché arriva il termine-mondo) woke alla destra più reazionaria, per una qualche ironia del destino, si può riportare come un trasferello di una volta sulla cartina geografica: all’estrema sinistra – cioè a ovest, guardando il mappamondo – degli Usa c’è la California, capitale del progressismo senza se e senza ma, mentre all’estrema destra – a est, affacciata sull’Atlantico – troviamo la Florida del governatore turbo-reazionario Ron DeSantis.

I due megastates da tempo hanno assunto il ruolo di fronti bellici in prima linea negli scontri culturali, a partire da quelli che orbitano attorno all’istruzione pubblica e all’insegnamento, racchiudendo in sé la polarizzazione che piaga i dibattiti nel resto del Paese (e diciamo pure di buona parte del mondo occidentale). California e Florida, prima che due Stati, oggi sono due simboli di appartenenza politica e, per così dire, ideale.

D’altronde, di mezzo ci sono due visioni del mondo contrapposte: se la California dal 2020 ha deciso di smettere di considerare i punteggi ottenuti dagli studenti delle scuole superiori all’ACT e al SAT, i test standardizzati per misurare il livello di preparazione per il college, in Florida entrambi gli score continuano a venire richiesti per l’ammissione all’università.

E se nel Golden State, a ovest, si bada alla diversity e ad ampliare a qualsiasi costo l’accesso delle minoranze all’istruzione superiore, i Repubblicani del Sunshine State, a est, stanno cercando pervicacemente di smantellare i programmi pubblici di diversity and equity (ne abbiamo parlato anche da queste parti). Sulla West Coast si propone di valutare docenti e dipendenti sulla base della loro «comprensione di principi DEIA [acronimo di Diversity, equity, inclusion, and accessibility, nda] e antirazzisti»; sulla East Coast si crea un clima di sorveglianza che bandisce ogni testo sospettato di contenuti “non-conformi” come la critical race theory, e si prende a modello l’Hillsdale College, l’università cristiana e tradizionalista del Michigan osannata dalla destra.

Anche se entrambi i modelli hanno i loro limiti, le loro mancanze e le loro ottusità ideologiche, non ci vuole molto a determinare cosa è meglio e cosa è peggio, e quale risulta più immediatamente pericoloso. Ma la stessa divisione in cluster politico-accademici è rischiosa, secondo gli esperti, perché con ogni probabilità porterà a un circolo vizioso di frazionamento sociale: «Questo stato di cose farà avanzare ulteriormente la polarizzazione», ha detto al Washington Post David Strauss, consulente per l'istruzione superiore a Baltimora. «E questo per me è un pericolo».

Quest’anno la Corte Suprema a maggioranza conservatrice – la stessa che ha già stroncato la sentenza Roe v. Wade sul diritto all’aborto – si pronuncerà sull’affirmative action nelle ammissioni universitarie, verosimilmente smantellando il sistema di leggi nazionali che prevedono quote di minoranze etniche e razziali di cui tenere conto nelle nuove iscrizioni. E la decisione politica genererà senza dubbio ulteriori polarizzazioni.

Va detto, peraltro, che lo scisma tra i due Stati non si ferma al versante accademico: nei grandi centri della California vige una cultura politica improntata a un certo laissez faire nel campo sociale (come dimostra il caso di San Francisco), mentre Miami sta virando decisamente a destra; in una prigione californiana si possono incontrare operatori assistenziali che chiedono ai detenuti di dichiarare i loro pronomi, e nel contempo in Florida – dove il governatore DeSantis ha dichiarato guerra al colosso locale Disney perché aveva criticato le sue leggi anti-Lgbt – i gruppi neo-nazisti si stanno coordinando in maniera più regolare e preoccupante che in passato.

In California e Florida non sono (ancora) stato, purtroppo. Ma qualche mese fa ho incontrato un rappresentante degli studenti di ciò che di più simile ai college della Cali esista sulla costa orientale: la New York University, un bastione dell’università iper-progressista, per quanto privata ed elitaria, dove l’attenzione alla diversity è un valore fondante e politicamente attivo. Cosa mi ha detto questa persona? Per quello ci vuole una puntata ad hoc: rimani su questi schermi.

Altre news dal fronte

  • La famosa organizzazione no-profit Oxfam ha diffuso una guida al «linguaggio inclusivo» di 92 pagine per il suo staff e i suoi collaboratori, a cui si chiede di preferire «genitore» al posto di «padre» e «madre» in alcuni contesti, tra le altre cose. Quest’ultima raccomandazione ha mandato ancora una volta in tilt i media populisti e la destra, ma a ben vedere, come scrive Peter Williams su New Statesman (paywall), oltre il solito cicaleccio qualcosa di cui occuparsi ci sarebbe: «Attribuire così tanto potere alle particolarità della scelta delle parole trascura il tono, l'intento e il contesto», specie se spieghi che «elderly people» («persone anziane») va bene, ma «seniors» («anziani») no, o che dire «la migrazione è un fenomeno complesso» è halal, ma per qualche motivo «la crisi dei rifugiati» risulta haram. Non resta che scegliere da che parte stare, dice Williams: «Un bigottismo sbruffone o una santimonia esibita?»;
  • Cose succede su quelle disumane cloache dette social media quando perdi un figlio piccolo e gli antivaccinisti lo scoprono.

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