Dal diario di un signore di New York


Un New York minute, nel gergo locale, è un minuto che dura un attimo, associato alla velocità proverbiale della Empire City. Io a New York non venivo dal 2015, quando l’avevo visitata in altre circostanze, e in buona parte anche in un altro mondo.

Questi sette anni, a vederla oggi, non sembrano affatto volati: interi quartieri hanno cambiato volto e allontanato definitivamente chi ci viveva fino all’altro ieri, la gente che incontri pare generalmente più provata, più afflitta, e soprattutto la povertà è centuplicata e ha invaso come un fiume senza argini le strade scintillanti e lugubri di Manhattan. Chi ce la faceva ce la fa ancora, chi non ce la faceva finisce sempre più spesso sulla strada. L’impero è visibilmente in crisi, ma si attarda in giochi circensi di maxischermi, ristoranti a chilometro zero e tour organizzati a Central Park.

In questi primi giorni di viaggio ho percorso a piedi una distanza totale di poco superiore ai 50 chilometri (iPhone dixit), concretizzando quel bolso detto giornalistico sul consumare la suola delle scarpe, e nel farlo mi sono concesso la cosa più entusiasmante che si possa fare a New York: parlare con le persone che ci vivono. L’ho fatto con quelle che ho trovato alle fermate delle metropolitane e degli autobus, coi tassisti e gli autisti di Uber, coi cassieri di minimarket di periferia, coi pendolari su treni per il New England, con coppiette a passeggio nei giardini pubblici al tramonto, con addetti alla sicurezza, con uscieri e con alcuni passanti.

Conversazioni spontanee, istantanee, small talk in vesti imperiali, e la naturale evoluzione di quel senso di incredulità megalomane che prima o dopo pervade chiunque abbia messo piede nella Grande Mela; la voglia di prendere sotto braccio il primo che capita per dirgli: ti rendi conto di tutto questo grandeur meraviglioso? Di tutta questa miseria ingiustificabile? Come può essere tutto vero?

Abu viene dall’India, dove fino a pochi anni fa insegnava scienze politiche in un college. Oggi guida una di quelle berline scure con gli interni in pelle che in Italia hanno soltanto più alcuni anziani, avrà sui sessant’anni e porta una coppola blu che gli nasconde la fronte. Mi dice che abita a Park Slope, uno dei quartieri più costosi di Brooklyn (l’affitto medio per un bilocale in zona è attualmente molto sopra i 3mila dollari), grazie a due signori che venivano spesso nella farmacia in cui lavorava appena arrivato in America. Gli serviva una casa, loro ne avevano una vuota: «“Basta che tu non faccia feste”, mi hanno detto. [ride] Ma che feste vuoi che faccia? La mia festa è arrivare a casa la sera».

Abu si destreggia al volante per le strade di Brooklyn puntellate di dehor e caffè vagamente europei e intanto, saputo che faccio il giornalista, mi chiede che penso di quel che succede in Ucraina: «What do you think? I have my theory». La sua theory è che la Russia di Vladimir Putin è stata messa nell’angolo dall’espansionismo americano, e d’altronde – spiega Abu – Churchill ha fatto lo stesso errore con Hitler negli anni Trenta.

Nabir ha una quarantina d’anni e un food truck parcheggiato a cento metri dal toro di Wall Street, sempre preso d’assalto da turisti chiassosi che fanno la fila per immortarlasi nell’atto di toccargli i genitali. Nabir è in America da quattro anni, torna in Algeria solo quando riesce, ha una moglie «di qui» e quando gli chiedo se New York gli piace scoppia a ridere: «It’s New York! Everybody likes it». Dice che ci sono sempre più «crazy people» in giro, però, e che bisogna stare attenti: quelli se stai troppo vicino al bordo della piattaforma ti buttano sotto le metropolitane. E che dire di quelli che ti strappano il cibo dalle mani? Per un po’ sono venuti a chiedergliene tutti i giorni, dice, e anche con modi bruschi, poi hanno desistito.

Nabir non dice il falso, almeno fino a un certo punto: io stesso non ricordavo così tante persone senza fissa dimora nei parchi, lungo le Avenues, sulle panchine della metropolitana e in ogni angolo su cui si possa posare lo sguardo. Il numero di homeless a New York non era così alto dai tempi della Grande Depressione, e il fenomeno colpisce in modo sproporzionato gli afroamericani. Intanto un bicchiere «small» di frutta frullata comprato da un camioncino parcheggiato sui marciapiedi di Times Square costa ormai otto dollari; una cena nell’Upper East Side almeno 70-80; la spesa al supermercato mensile poco meno di 500 dollari a persona; gli affitti, beh, l’abbiamo visto. Anche il Queens e la suburbia costano troppo per moltissimi.

Secondo Lamar, che lavora in un Whole Foods – la catena di supermarket di Amazon – nel Bronx, è molto giovane e porta i capelli in treccine finissime, i 17 dollari l’ora che la società di Jeff Bezos promette ai nuovi assunti sui manifesti di cui è tappezzato il punto vendita «non sono abbastanza nemmeno per pagare le bollette». Quando gli chiedo cosa non va a New York secondo lui, allarga le braccia: «You know, man: non c’è lavoro. E anche quando c’è, non è abbastanza per avere una vita dignitosa. Sei nella capitale del mondo, ma sei costretto a vivere come l’ultimo degli ultimi». Se ne andrebbe dalla Big Apple? «Se potessi sì, subito e senza guardare indietro».

Kathy è una frequent flyer, per così dire, della linea ferroviaria ad alta velocità che collega New York a Boston, passando per i paesaggi incantevoli e colorati di rosso autunnale del New England. Ha i modi e il portamento di una signora che ha vissuto una vita ben più che «dignitosa», e in un secondo momento scopro che è una personalità pubblica della politica dei Duemila, ma questo al momento non rileva. Mi parla di come la destra americana stia cercando di «distruggere le fondamenta del vivere comune». Ricorda che il 6 gennaio 2021, il giorno dell’assalto al Campidoglio, era davanti alla tv, impietrita, e crede che Donald Trump potrebbe essere il candidato conservatore delle presidenziali del 2024.

Racconta di un’amica di lunga data, un’avvocatessa di origine ebraica dell’Upper East Side, che ha smesso di parlarle da quando lei non ha voluto seguirla sulla strada del trumpismo più intransigente, negando che Joe Biden avesse rubato le elezioni del 2020. «Non era una di loro, all’inizio. Ma poi ha iniziato a credere a ciò che vedeva su Fox News, a entrare in quel gorgo. E ora credo non frequenti più nessuno al di fuori di quel circolo di posizionamento politico».

Se New York con le sue centinaia di lingue e migliaia di accenti è la coscienza della civiltà occidentale, sorprende fino a un certo punto che sia in crisi. È più probabile che ancora una volta incarni il ruolo di specchio dei tempi: del trionfo del capitalismo inclusivo a parole e spietato nei fatti, della celebrazione ufficiosa del burial ground e della mostra antirazzista en plein air a due passi da persone di etnia afroamericana che muoiono di stenti per le strade.

È, come sempre, un luogo insuperabile, pieno di storie, crocevia di esistenze diverse. Il simbolo dell’esperimento americano, il melting pot. Ma qualcosa si è rotto, ed è difficile dire cosa potrà ripararlo. Porgendomi un taco ripieno a due passi dalla capitale della finanza mondiale, Nabir mi ha detto sgranando gli occhi: «Nowadays it’s like this, my friend. La gente vede il video di un gattino su Internet e pensa che sia la cosa più bella del mondo, farebbe a gara per adottarlo. Ma sono pronto a darti 100 dollari se mi dimostri che poi si ferma per la strada a dare una mano a un disperato che gli chiede aiuto».

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(Il titolo di oggi è un richiamo al lavoro di una meritevole casa editrice al femminile, Astoria, e a un libro che ha pubblicato qualche anno fa: Dal diario di una signora di New York è una raccolta di racconti di una formidabile scrittrice newyorkese a cavallo fra le due guerre, Dorothy Parker. Non posso che consigliarti entrambi).

Altre news dal fronte

  • L’elezione del leghista Lorenzo Fontana a presidente della Camera dei deputati è, per dirla con una parola sola, una tragedia (nonché il simbolo che il tanto decantato rispetto delle istituzioni è soltanto un lontano ricordo). Qui il video del suo saluto al congresso di Alba Dorata, la formazione di estrema destra greca disciolta per i suoi legami col neonazismo. Era il 2016, non trent’anni fa:
  • Molto ridere: secondo diversi media americani di primissimo piano, alcuni latinoamericani del consiglio municipale di Los Angeles hanno usato espressioni razziste per colpa del suprematismo bianco.

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