Una parola che parli di me


Qualche tempo fa stavo svuotando casa per un trasloco. Era tutto sottosopra, dovevo iniziare a inscatolare le cose e non sapevo da dove cominciare. A un certo punto, guardando una pila di vestiti, mi sono paralizzata. Ho sentito una disperazione folle montare dentro. Ho iniziato a girare come una pallina da flipper impazzita per tutte le stanze e più passava il tempo più mi accartocciavo su me stessa. Sapevo cosa stava per succedere: panico, follia.

Una persona che mi stesse guadando, ad esempio il mio compagno, pur conoscendomi non sarebbe mai potuta arrivare a dedurre – a capire – che stavo per avere un “attacco”. Che non riuscivo più a ragionare. Che non era successo niente, nessun trigger improvviso, ma dentro di me si stava scatenando una reazione atomica.

Oggi, a 32 anni, posso dire che funziono abbastanza bene. Ma mi è rimasto qualcosa di sfuggente nella percezione che ho di me stessa. Risposte fuori luogo a stimoli banali. Attacchi di disperazione incontrollata. Cose così.

Quando ho letto la parola “neurodivergenza” per la prima volta qualche anno fa mi sono incuriosita. Ho letto alcune cose che mi hanno fatto alzare il proverbiale sopracciglio: comportamenti, sensazioni, situazioni che mi erano stranamente familiari. Gli articoli hanno continuato a fioccare, e così le testimonianze.

Circa un anno fa ho letto la storia di una mia coetanea diagnosticata Asperger. Più leggevo, più mi saliva il magone: sembravano parole scritte da me. Mi ritrovavo non solo nei sintomi, ma anche nella percezione di questa diagnosi da parte sua e delle persone a lei care. Era una descrizione quasi chirurgica dei miei pensieri. Ho sentito la necessità di fare qualcosa. Ho deciso di iniziare con una ricerca più approfondita sull’Asperger e ho scoperto che la diagnosi nelle donne potrebbe avere parametri diversi rispetto agli standard calibrati sugli uomini. Mi sono detta: e se provassi questa via? Suonava molto definitiva, non mi convinceva sotto tutti i punti di vista. Chi si arroga il diritto di definirti? Secondo che parametri?

Ne ho parlato con un’amica psicologa, che mi ha consigliato di contattare un centro specializzato in neurodivergenze. Non era convinta che io fossi Asperger, ma credeva al mio malessere.

Poi ho scritto a mia sorella di 23 anni, che mi ha detto: «Qualunque sia la motivazione, prova e vedi. L’amica di X per esempio non capiva perché non si ricordasse le cose all’esame nonostante studiasse tanto. Parlandone con Y, che ha un Dsa [disturbo dell’apprendimento, Nda], si è resa conto che molte cose coincidevano. È andata in un centro, le hanno diagnosticato un Dsa, e adesso è molto sollevata. E durante gli esami può tenere gli schemi per aiutarsi». Molto semplice, molto pratico, molto normale.

Infine ho scritto all’autrice della testimonianza chiedendole cosa fosse cambiato nella sua vita dopo la diagnosi. Lei mi ha parlato di un percorso di psicoterapia mirato a gestire gli aspetti più difficili, e poi di una maggiore sensibilità nei suoi confronti da parte delle persone che si rapportano con lei. Anche quelle più vicine.

Allora mi sono chiesta: io perché voglio farmi diagnosticare? Mi voglio far mettere un’etichetta in fronte? In cuor mio lo so che funziono diversamente, ma perché voglio che la gente lo sappia? Nella mia testa avrebbe senso che le persone attorno a me sapessero che vivo con molta fatica e difficoltà cose apparentemente banali, e che mi trattassero conseguentemente con più... gentilezza? Ma già lo fanno. Chi mi vuole bene e mi conosce da tempo accetta me e le mie difficoltà, le mie asperità. Sa che può capitare che per una giornata non apra bocca, oppure che un piccolo ma repentino cambio di piani mi faccia precipitare nell’angoscia. Eccetera, eccetera.

Però mi dico che una diagnosi medica darebbe al tutto un tono di realtà. Di autorevolezza. Non un “vabbè, è normale avere giornate storte”. No: è la chimica del mio cervello che non funziona, o qualcosa del genere.

Mi sento incompresa nel senso che neanch’io so spiegare bene cos'è quello che vivo, che provo in certe situazioni. Allora, visto che il linguaggio è imperfetto – e visto anche che nessuno riuscirà mai a capire cosa significa essere qualcun altro – se magari riuscissimo a racchiudere tutto questo in una parola, una locuzione o una frase magari la comunicazione e la comprensione sarebbero più facili? Se lo nomino, allora esiste?

Per un po’ ho accantonato la questione. Poi l’intervento di Francesco Avallone su una passata edizione di questa newsletter ha riattivato i miei ragionamenti. Avallone ha scritto un articolo su Lucy – e poi qui su Culture Wars, appunto – sul «ruolo che hanno le diagnosi nel definire la propria identità», sui rischi del ridurre una persona alla sua diagnosi, sull’attivismo banale e a volte aggressivo in tal senso. Dice che «l’essere umano assomiglia molto più all’acqua che alla pietra» e che «le diagnosi rischiano di essere un concetto su cui basare la propria identità piuttosto labile e limitante».

Sono d’accordo con lui. Io non sono sempre così: forse per questo una diagnosi mi sembra monolitica, limitante. Non ho sempre delle reazioni strane. Non ho sempre la stessa reazione al medesimo stimolo. Però a volte sì. E quelle sono le volte che contano, per me, perché mi fanno stare male, smetto di funzionare come vorrei e devo anche sforzarmi di non turbare troppo gli altri. Come dicevo, per arrivare a funzionare in modo socialmente accettabile ho fatto e faccio uno sforzo di adattamento titanico, che dura da anni.

Torniamo alla storia del trasloco. Ho imparato a collocare questi attacchi e quindi a saperli gestire prima che arrivino (o mentre stanno arrivando). So che ho una grande difficoltà a dare priorità ai task, a organizzare mentalmente le cose – qualunque cosa, da come sistemare i vestiti nell’armadio a cosa fare della mia vita professionale. È come se tutte le possibilità coesistessero nello stesso momento nel mio cervello e non riuscissi a ordinarle, una matassa di realtà indistricabile. Mi paralizzo. È una cosa spesso molto fastidiosa, e nei momenti peggiori invalidante.

Ecco, queste mi sembrano situazioni in cui chi mi sta accanto potrebbe essere facilitato nel capirmi se ci fosse una diagnosi. Il non essere “vista” dalle persone a me vicine aggiunge quel pizzico di imprevedibilità alle mie capacità di adattamento. So che se quel giorno fossi stata da sola avrei saputo gestire meglio l’attacco, non sarei esplosa. E per qualcuno che non è me è più facile ricordarsi “è neurodivergente” che non “quando succede A allora fa B, però solo se C”. Invece di spiegare i miei moti interiori in un momento in cui sono già bastantemente in crisi, si mette una bella pezza cognitiva e possiamo proseguire la nostra vita.

Tra me e me sono arrivata a concludere che il fatto che alcune persone si identifichino con la propria diagnosi o che online si combattano alcune battaglie vuote e banali, o persino controproducenti, non è un motivo sufficiente per prendere posizioni che rischiano di continuare a far soffrire chi è neurodivergente. Mi sembra una situazione lose-lose: negandomi una diagnosi non miglioro la società, ma peggioro la mia vita.

Intendiamoci: personalmente sono per le soluzioni collettive, e riconosco che molte sofferenze apparentemente individuali derivano da una realtà condivisa a dir poco problematica. Però nel quotidiano sono tanto stanca, e sapere che chi ho accanto riesca a nominare – e a comprendere – la mia difficoltà esistenziale mi aiuterebbe a campare più serena, mentre troviamo soluzioni collettive. Non lo vedo come un trionfo dell’individualismo, anzi. Per me significherebbe condividere un pezzetto della mia fatica con le altre persone. Un esercizio di empatia.

Altre news dal fronte

  • È interessante la polemica che si è generata su TikTok per un articolo (qui dietro paywall) della decana Natalia Aspesi sulle cosiddette booktoker, cioè le influencer – perlopiù al femminile – che postano su quell’appina distopica recensioni e pareri su romanzi incentrati su storie d’amore: Aspesi sostiene che dietro la ventata di novità da terzo millennio in bio, queste persone continuano ad appassionarsi a trame e personaggi spesso stereotipati e retrogradi, e secondo me ha ragione;
  • Due parole sul famigerato video dell’attivista di Ultima Generazione che fa la figura del fesso con un poliziotto in viale Fulvio Testi a Milano: nella società della performance socialmediale – che è anche, purtroppo, quella in cui si muove molto attivismo – a contare è sempre anzitutto la performance, appunto. Se un poliziotto si mostra carino, cortese e logico davanti all’obiettivo della fotocamera, ha vinto. Non è che forse, in generale, ci vorrebbero meno obiettivi?;
  • Ibram Kendi è una delle grandi star dell’antirazzismo statunitense, nella sua accezione più (perdonami) woke e intransigente: il suo Center for Antiracist Research all’Università di Boston però ha incamerato decine di milioni di dollari di finanziamenti per produrre quasi niente. E tanti afroamericani iniziano a essere stanchi di certi «celebrity authors» che si appropriano delle loro lotte.

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