La famosa petizione contro lo schwa

Ciao, qui Davide Piacenza, scribacchino professionista e genitore di Culture Wars, la famosa [citazione necessaria] newsletter che ti aiuta a capire il politicamente corretto e a dire addio agli shitstorm in rete, che fanno male alla tua salute e a quella degli altri.

Questa settimana la puntata è tutta dedicata a un grafema di cui hai sentito parlare, lo schwa (ə), ed esce eccezionalmente di giovedì per “stare sul pezzo”, come dicono quelli bravi.


Di cosa parliamo, in breve

La maggioranza conosce gli antefatti, ma li riassumo per chi si fosse distratto: in settimana Massimo Arcangeli, stimato linguista e professore universitario, ha avviato una petizione contro l’uso della vocale media ə, da qualche anno diffuso fra le sottoculture queer e gli attivisti di sinistra come stratagemma “inclusivo”, e di cui negli ultimi tempi si parla – in modo spesso goffo e non centrato – anche sui giornali e media mainstream.

Nel testo dell’appello, che mentre scrivo è stato firmato da circa 15mila persone, si parla di una «proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti e di scriventi», una «pericolosa deriva, spacciata per anelito d'inclusività da incompetenti in materia linguistica».

È superfluo aggiungere che la petizione ha generato un prevedibile bailamme, e che da qualche giorno in diverse bolle socialmediali non si parla d’altro: Arcangeli e i suoi co-firmatari hanno indicato come pistola fumante della «pericolosa deriva» una serie di verbali redatti dalla Commissione per l'abilitazione scientifica nazionale alle funzioni di professore universitario, un importante organo dell’istruzione italiana, in cui lo schwa è stato utilizzato (peraltro in modo piuttosto goffo e ignorante) in un contesto burocratico e, va da sé, pubblico; un segnale, secondo gli estensori della petizione, delle proporzioni del fenomeno di imposizione in atto.

Dal mio punto di vista, certamente quella Commissione ha commesso un atto abbastanza grave e da rettificare, e – più in generale – non credo che lo schwa sia una soluzione percorribile ed efficace per la vera, “materiale” inclusione non solo di alcune, ma di (possibilmente) tutte le minoranze. Inoltre, sono convinto che al momento il ricorso allo ə rappresenti più che altro un segno distintivo di appartenenza a una famiglia politica, o una generica manifestazione di supporto a una serie di cause.

La petizione, tuttavia, a mio modo di vedere va oltre queste critiche, ammantando il grafema di un portato para-apocalittico che non riesco a vederci: per me, come dicevo, è anzitutto il segno di riconoscimento di una nicchia, e finché non verrà imposto dall’alto (un’ipotesi che mi pare francamente lontana) non vedo perché parlarne in questi termini preoccupati, in un modo che porta a irrigidire le posizioni e fomentare una certa violenta esasperazione nel dibattito.

E questi erano i miei 2 cent. Per fortuna, però, in questa puntata di Culture Wars ci sono anche cent molto più competenti: quelli di Vera Gheno, sociolinguista che è tra i primi sostenitori dello schwa, e di Yasmina Pani, linguista che ha invece firmato la petizione di Arcangeli. Vi parleranno delle loro ragioni a supporto dell’una e dell’altra parte, con la prospettiva di chi si occupa di lingua per mestiere.

Ringrazio molto entrambe di essersi prestate a queste due brevi interviste. Per te invece, se lo accetti il mio consiglio è sempre quello: fatti un’idea misurata, e solo dopo – se proprio ci tieni – prendi a sassate il primo che passa su Instagram, Facebook e Twitter.

#CultureWarsMeets: Vera Gheno ⬇

⪢ La recente petizione “contro lo schwa” firmata, tra gli altri, da Barbero, Cacciari e Flores d'Arcais definisce il grafema «la proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti e di scriventi». Cosa pensi di questa critica?

Penso che la petizione contenga una fallacia, rispetto a questa affermazione: lo schwa, più che una «proposta», è uno tra gli espedienti linguistici sperimentali impiegati da una minoranza che non si trova a proprio agio con il maschile e il femminile, in quanto non sente di appartenere a questa dicotomia; tale minoranza mai si è sognata di imporre né lo schwa né gli altri esperimenti linguistici, che all’interno di determinati contesti (collettivi Lgbt+, gruppi transfemministi, eccetera) sono usati da più o meno una decina di anni, ad anima viva. Le persone non binarie, che sono a tutti gli effetti membri della comunità dei parlanti, hanno tutto il diritto di sperimentare con la propria lingua per adeguarla alle proprie esigenze, esattamente come chiunque altro. Ovviamente, la questione cambierebbe se davvero ci fosse qualche intento impositivo sul resto della società, ma così non è.

Se il problema è che, per volere di uno o più membri di una commissione dell’Asn, i verbali di quella commissione sono stati redatti usando (male, in maniera discontinua e confusa) lo schwa, direi che la strada sarebbe stata quella di sollevare dubbi sul suo operato, scrivere al ministero competente, non certo iniziare una petizione che si sta configurando come una violenta conta delle teste ostili alla fluidità di genere (o che non la comprendono).

⪢ Hai parlato dello schwa come di un «esperimento» linguistico, e come tale senza pretese di una prossima adozione massificata: è un modo per discutere di ciò che vi sta alla base, insomma, cioè il ruolo della lingua nell'inclusione sociale. Se la discussione finora sembra ostaggio di polarizzazioni da social – ma su questo tornerei con la prossima domanda – l'esperimento, invece, al momento può dirsi riuscito?

Come si misura il successo di un esperimento? Quando io mi son messa a studiare l'uso dello schwa, questo era già impiegato in contesti specifici, come detto sopra. Non penso che a nessuna delle persone che impiegano lo schwa (o la u, o l'asterisco, o altro) interessi davvero il giudizio della "massa" rispetto a quegli specifici esperimenti linguistici. Se però la bontà dell’esperimento si misura sulla sua capacità di avere acceso un dibattito rispetto a una diversità finora ignota ai più, direi che è un successone. In fondo anche questa petizione, pur portando una polarizzazione assolutamente non necessaria, sta facendo sì che ancora più persone si interessino alla questione...

⪢ In generale, un aspetto che trovo importante – e, per quel che vale, molto in linea con lo spirito di questa newsletter – del tuo modo di rapportarti al dibattito è che mantiene una ragionevolezza e una “laicità” di fondo che altre persone, da una parte e dall'altra delle barricate, sembrano aver perso. Quale pensi che sia il più grosso limite del modo in cui si discute di questo tema?

Da una parte, abbiamo una minoranza di persone che subiscono vessazioni da secoli (consiglio di leggere il bellissimo volume Queer. Storia culturale della comunità Lgbt+ di Maya De Leo); secondo me, che ci sia rabbia lì in mezzo è sacrosanto. Dall'altra, abbiamo una maggioranza che non si rende conto dei privilegi – anche linguistici – che ha sempre detenuto. Quindi, il più grosso limite di questa polarizzazione continua, a mio avviso, a essere l'incapacità di ascoltare un’istanza che proviene da chi, fino a tempi recenti, non ha mai avuto una voce pubblica.

#CultureWarsMeets: Yasmina Pani ⬇

⪢ Figuri tra i firmatari della petizione contro lo schwa, che parla di «una pericolosa deriva, spacciata per anelito d'inclusività da incompetenti in materia linguistica»: da linguista, perché ti trovi d’accordo con questa definizione?

Si tratta di una deriva perché è l’estremizzazione di una battaglia che inizialmente poteva essere sensata (sostanzialmente quella per i femminili di mestiere) e che non violava in nessun modo le regole della lingua; ora si arriva invece a proporre modifiche della fonologia e della morfosintassi, del tutto irrealizzabili (il che dimostra, appunto, l’incompetenza in materia linguistica). È peraltro ancora da dimostrare che cambiando la lingua si ottengano miglioramenti nello stato di cose fattuale, dunque si tratta anche di energie dissipate, che andrebbero forse impiegate in azioni concrete per raggiungere la vera uguaglianza sociale.

⪢ Alla definizione di «una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti» (cito sempre dalla petizione), i sostenitori dello schwa oppongono una contro-critica secondo cui le istanze rappresentate dal grafema vengono in realtà “dal basso“, cioè da persone che non si sentono a loro agio con le desinenze attuali della lingua. Lo schwa non è una soluzione adatta a rappresentarle?

Il tema delle istanze dal basso o dall’alto è complesso ed è una sorta di trabocchetto: certo, lo schwa non è stato inventato dallo Stato (che rappresenterebbe il polo alto) ma da alcuni parlanti comuni che lo hanno promosso su internet (e quindi sarebbero il polo basso). Il problema anche qui è che non si ha idea di come funzioni il mutamento linguistico: le innovazioni strutturali non arrivano per decisione o proposta dei parlanti, alti o bassi che siano, ma per dinamiche interne alla lingua stessa, delle quali i parlanti non sono consapevoli e che possono essere osservate solo quando sono già in atto da tempo o addirittura giunte alla fine del processo. Inoltre c’è un fraintendimento circa il ruolo del genere grammaticale, che non rispecchia affatto il genere come identità o come costrutto sociale.

⪢ Uno dei temi ricorrenti, in merito al discorso sul linguaggio che si definisce inclusivo, è che è diventato difficile parlarne: un'obiezione diventa la prova di un atteggiamento reazionario, una timida apertura l'indizio di un fanatismo radicale, e via discorrendo. Come si esce da questo impasse?

Questo stato di cose non è limitato alla lingua, ma riguarda in generale il dibattito su qualsiasi tema, che è sempre polarizzato e spesso violento, aggressivo. L’assenza di intellettuali seri e incisivi e la scarsa considerazione nella quale comunque questi vengono tenuti è una delle cause; a monte c’è naturalmente il disfacimento del nostro sistema scolastico e l’incapacità di incamerare e gestire i nuovi mezzi di comunicazione, nei quali si impongono figure che diventano di rilievo non per la loro competenza o intelligenza, ma per la loro capacità di intrattenere e raccogliere seguaci. Tutto questo dovrebbe dare origine a una seria riflessione che dovrebbe coinvolgere tutti coloro che si occupano di cultura, ma mi pare che questo non stia accadendo.

Altre news dal fronte

  • Parlando di pronomi: la Norvegia è molto vicina a vedere entrare nel dizionario della sua lingua un nuovo pronome, hen, che si aggiungerà a quello femminile hun e al maschile han per includere le persone non binarie;
  • Claire Lehmann di Quillette dice una cosa non scontata: non è facile combattere la disinformazione, anche perché da tempo c’è un movimento politico e d’opinione che, soprattutto negli Stati Uniti, mira a svalutare l’oggettività del sapere scientifico e l’esistenza stessa di una verità oggettiva, cioè una verità “ultima” che non dipenda da variabili sociali o identitarie, da decostruire in senso relativistico;
  • Per esemplificare quanto anche i discorsi migliori possono essere plasmati in cattiva fede: Axios, che di solito è un giornale serio, ha pubblicato una lettura molto forzata di un bisticcio fra economisti andato in scena su Twitter, accusando alcuni studiosi di misoginia sulla base del fatto che... hanno parlato di una donna. Una delle complicate sfide dei nostri giorni è saper separare il grano di una sacrosanta nuova attenzione agli equilibri nella società dal loglio di arrivisti pronti a piegarla per ottenerne visibilità e benefici.

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