Quel pomeriggio di un giorno da cani



La società feroce in cui viviamo non è soltanto quella della violenza orribile di Palermo e della sua finta lontananza da noi, di quei «cento cani sopra una gatta» che fanno vergognare e che dovrebbero farci fermare tutti a pensare, ma anche quella di come l’accadimento sta venendo metabolizzato e rimescolato sui nostri onnipresenti mezzi di – per così dire – comunicazione, i social media.

Viviamo nel mondo in cui si cercano i nomi e i volti degli arrestati, mettendo in pericolo omonimi innocenti e familiari, ma si va a caccia anche dei profili della diciannovenne, taggandola in fiumane di content, casomai dovesse gradire il rivivere costantemente quella notte, o l’essere imperituramente legata all’orrore di cui è incolpevole vittima.

Siamo la società in cui alcuni avvocati “algoritmici” postano che certe persone non meritano difesa processuale, rendendo in automatico colleghi e colleghe mostri senza etica e non normali servitori della legge, e quando la giudice che si occupa del caso trasferisce l’unico minore fra i colpevoli in una comunità per la custodia cautelare, come da prassi indicata dalla giurisprudenza, gli influencer urlano in coro che un carnefice «è stato scarcerato». E così: altro content.

Da Factanza

Viviamo nell’epoca in cui profili da centinaia di migliaia di follower sostengono non, come troverei indubitabile, che la cultura patriarcale che permea la nostra società fa da sfondo a orrori del genere, e che sbagliamo dunque a considerarci del tutto innocenti, ma direttamente che le «battute sessiste» fanno da apriporta agli stupri e agli omicidi, ne sono responsabili in modo paragonabile e vanno, in buona sostanza, considerate nello stesso campo. Oppure, altrove, che gli sguardi “sessualizzanti” che si posano sulle donne in discoteca sono fatti della stessa sostanza delle violenze di gruppo, e chi si macchia dei primi non è dissimile da quelli che agiscono le seconde.

Da Francesco Cicconetti

Comprendo e rispetto il fatto che queste chiose sono in buona fede, e vorrebbero seguire la direzione giusta della decostruzione delle discriminazioni meno apparenti. Ma sulle piattaforme ogni esitazione critica e distanza dubbiosa si annulla con un colpo di spugna: per vincere la lotteria della viralità contano la brevità estremizzata, lo schiacciamento del contesto, la grechetta sul profilo, l’engagement di tutto rispetto.

Oggi la marijuana della battuta del nonno sulle donne al volante o dell’occhiata oggettificante in discoteca, domani l’eroina di uno stupro di gruppo: è logica, o almeno così pare (anticipo l’obiezione del “non si voleva certo dire questo”: bene, perché il mio punto è proprio che si poteva dire tutt’altro; nessun medico ci ha prescritto di banalizzare questioni complesse affrettandoci a postare frasi a effetto tagliate con un machete. Alla nostra società non servono battaglie campali alimentate da algoritmi, ma spunti educativi che possano includere e far evolvere le persone).

Sono, questi che stiamo vivendo, gli anni in cui su TikTok nascono dozzine di account fake coi nomi e i volti del branco palermitano, per massimizzare e perpetuare l’indignazione, la tensione, la confusione seguita alla notizia di quella notte.

I social media, nella forma in cui ne disponiamo oggi, sono un problema che esacerba tutti gli altri problemi: funzionano bene per la promozione e l’autopromozione – perché per questo sono pensati e strutturati – ma nell’orizzonte del progresso sociale si rivelano inutili, anzi attivamente dannosi. Chiediamone di migliori, senza like, senza performance onnipresenti, senza oscenità ulteriori in un mondo già bastantemente osceno.

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