L’unico social network buono


Non avrei onestamente mai immaginato di citare i 99 Posse nel titolo di una puntata di questa newsletter, ma la vita è sorprendente ed eccoci qua.

Non so se sai che due tra le persone più ricche e influenti di quest’era geologica, Mark Elliot Zuckerberg ed Elon Reeve Musk, parlano da un po’ di organizzare un Grande Evento che li vedrebbe impegnati a menarsi in una gabbia.

Cosa di per sé interessante: sognavamo – e ci siamo detti per anni, incidentalmente – che l’era dei social media avrebbe portato con sé liberazione, disintermediazione, rappresentanza e tante altre cose meritevoli, ma fast forward di una dozzina d’anni e ci troviamo a decidere per quale miliardario matto fare il tifo, tanto nel prossimo atteso incontro di lotta libera quanto nella scelta della prossima piattaforma a cui affidare la nostra comunicazione pubblica.

Sì, perché nel frattempo Zuckerberg ha lanciato Threads, la risposta a una domanda che nessuno di sano si era mai posto: come sarebbe Twitter se fosse una succursale di Instagram? Sfruttando l’ennesima inane idiozia del suo rivale Musk – la limitazione del numero di tweet visualizzabili su Twitter, durata quanto un gatto in tangenziale – ‘Zuck’ ha agitato di fronte al pubblico deluso dell’uccellino blu (e quindi, citando la definizione succinta e perfetta di Ian Bogost sull’Atlantic, «giornalisti, influencer, nazionalisti bianchi, #brand e altri») il fantoccio di un’alternativa percorribile, ammantandolo persino di uno certo presunto afflato indie e antisistema.

Però ecco, insomma, non so come dirlo e suonerà come una rivelazione, ma: Mark Zuckerberg non è uno sviluppatore indie, e il «sistema» l’ha letteralmente creato lui. Che così tanta gente sia caduta mani e piedi nel suo calcolato spin da amicone ritrovato dell’internet la dice lunga sul livello di anestetizzazione delle coscienze operato dal framework mediatico di questi anni.

Ma comunque: e questo Threads, com’è, dato che per ora non è accessibile dall’Italia (almeno senza quei due o tre accorgimenti noti)? Il giornalista Ryan Broderick – che purtroppo, tocca ricordare, racconta ancora la favoletta di un Twitter scomodo che le canta ai potenti e per questo viene chiuso da un potente, ma vabbè: qualche cazzata l’abbiamo detta tutti – l’ha definito «un cimitero del content», spiegando che il suo lancio è sempre stato inteso da Meta come «una mano di vernice fresca per il codice di Instagram, sperando che potesse rendere il network nuovamente rilevante».

Nel frattempo diversi utenti della nuova app ne hanno colto il carattere che somiglia alla realizzazione ultima della distopia finale dei social media: Threads è un ricettacolo di post sgarzolini di brand e influencer che provano a venderti cose. Ossia quello che c’è stato finora, ma peggio.

Sì, per certi versi il nuovo gingillo non è niente di nuovo: è solo un altro passo nel solco tracciato in un decennio da luoghi digitali che sono sempre stati tossici, distorcenti e dannosi per la nostra salute. Solo che oggi ce ne accorgiamo: quando Zuckerberg scrive su Threads che «dovrebbe esserci un’app di conversazioni pubbliche con oltre 1 miliardo di persone. Twitter ha avuto l'opportunità di farla ma non ci è riuscito. Speriamo di farlo noi», leggendo il post siamo istintivamente inorriditi, perché in noi è ancora vivissimo il ricordo, o meglio la recente esperienza di cosa è accaduto su una piattaforma arrivata al massimo a 500 milioni di utenti (a chi non ricordasse suggerisco anzitutto di googlare le parole “Donald Trump”).

Probabilmente ha ragione Bogost, quando scrive che da qui in avanti repliche pedisseque dei social media più celebri nasceranno e moriranno ciclicamente in base alle volontà (e ai capricci) di un pugno di capitani d’impresa della Silicon Valley, pronti a renderli copie di zombie che si attardano in un deserto che hanno già razziato ripetutamente.

«I social media non possono tornare buoni, perché non li lasciamo evolvere». Abbiamo bisogno della loro invivibilità asservita alle logiche del marketing, che in qualche caso disperato continueremo a raccontarci come un Eden di attivismo e progresso sociale (come no, come no). Ma è il bisogno generato da una dipendenza patologica, pavloviana, tossica. Lo è sempre stato, anche se ci è piaciuto credere il contrario.

E allora forse tanto vale accogliere col sorriso ogni fine rituale di queste macchine che ci tengono una compagnia ossessiva e interessata, e sperare oltre ogni dato di realtà che sia la volta buona, che stavolta si possa rompere il maleficio che ci ha reso loro schiavi: mai come al tempo degli algoritmi mors tua, vita mea, caro Twitter.

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