100 giorni di razzismo di Stato


Lunedì 28 aprile, al sorgere del sole, decine di cartelloni formato foto segnaletiche disegnavano un corridoio macabro fra il North Lawn e l’ingresso dei reporter alla Casa Bianca. Sotto un logo presidenziale apparivano volti pixelati di persone identificate solo come «illegal aliens», accuse di stupro o omicidio in corpo 72; nessun nome, nessuna data, ma la ricerca della massima potenza visiva.

Un funzionario dell’amministrazione ha spiegato ad Axios che l’obiettivo era «farli ricadere nell’inquadratura di ogni diretta tv», mentre Donald Trump festeggiava la soglia simbolica dei 100 giorni. L’operazione – con foto poi rilanciate dal profilo X dell’ufficio stampa del governo americano – è stata confermata a CBS News dal direttore a interim dello United States Immigration and Customs Enforcement (ICE) Tom Homan, che ha ribadito il suo slogan: «Vi daremo la caccia».

La scenografia conta più dei numeri: quell’iconografia tutta votata a dare un volto ai “nemici interni” è perfetta per un pubblico schiavo delle piattaforme, abituato ad immagini ad alto tasso emotivo ed a contenuti polarizzanti. Il prato sembra essere stato allestito per le conversioni in click: la guerra ai migranti è ormai la prima arma di distrazione di massa della politica trumpiana.

Dietro la vetrina punitiva, però, si consumano storie ben meno fotogeniche. Il 25 aprile l’ICE ha imbarcato su un volo charter per l’Honduras tre bambini – cittadini statunitensi – di 2, 4 e 7 anni, fermati con le madri a un normale check-in in Louisiana. Il più piccolo, due anni, è stato deportato «in modo illegale e incostituzionale», per citare le parole di un giudice federale conservatore, Terry Doughty; il maggiore, quattro anni, è malato di cancro al quarto stadio e ha lasciato il Paese senza farmaci né cartella clinica, né la possibilità della famiglia di parlare coi suoi medici. Per nessuno di loro è stato nominato un tutore legale, come sarebbe prassi in questi casi.

Il Dipartimento per la Sicurezza interna sostiene che «le madri hanno scelto di portarli con sé» in Honduras, ma questo non risulta a nessuno: gli avvocati parlano di “decisioni” estorte in regime di isolamento e senza assistenza legale. E non si tratta di casi isolati, di poche-mele-marce: il Washington Post ha documentato un trend di rimpatri accelerati che sta mietendo vittime anche tra bambini e persone gravemente malate. Per segnare Internet points, insomma, Trump e i suoi hanno creato un cortocircuito dei diritti costituzionali.

La Casa Bianca parla di «record storici» nel campo della sicurezza alla frontiera con 139mila rimpatri in poco più di tre mesi – ma gli stessi dati interni di ICE ne contano meno della metà, 65mila rimpatri, molti dei quali in fase preliminare. Nei suoi primi, terribili cento giorni Trump ha firmato 142 ordini esecutivi, più di quanti ne abbia siglati qualsiasi altro presidente statunitense dal 1945; oltre la metà sono stati dedicati a immigrazione e ordine pubblico, generando una cornucopia di contenziosi: Reuters conta già più di duecento cause civili intentate contro le azioni del governo, settanta delle quali hanno prodotto sentenze almeno in parte ostili alla Casa Bianca.

Ultimamente, per giustificare le sue spudorate vioalzioni dello stato di diritto, l’amministrazione ha riesumato una legge del 1798 – l’Alien Enemies Act – che concede al presidente poteri di detenzione e deportazione di stranieri durante le guerre o di fronte a una minaccia di invasione; mai applicata in tempo di pace dalla Seconda guerra mondiale, la legge è stata invocata recentemente per deportare 137 venezuelani nel mega-carcere delle torture di El Salvador (quello del terribile video della ministra della Sicurezza interna Kristi Noem in parata di fronte ai prigionieri) nonostante un’ingiunzione di una corte federale che ordinava di invertire la rotta ai voli già decollati.

Riassumendo: dati gonfiati, cornici belliche e poteri d’emergenza: la combinazione ideale per un’epoca che premia chi ha meno riserve nel riplasmare la realtà a suo piacimento.

Il fatto è che questa presidenza – una presidenza che non ha eguali, nemmeno nel primo mandato dello stesso Trump – considera ogni battuta d’arresto parte dello spettacolo. In un comizio di queste ore a Warren, Michigan, Trump ha detto, testualmente, «niente mi fermerà».

Il presidente ha sferrato dardi a quelli che ha definito, con echi per noi fin troppo familiari, «giudici comunisti e della sinistra radicale», invitando i suoi sostenitori a tenere a mente i loro volti, non soltanto quelli affissi sul prato della Casa Bianca. Eversione non soltanto dura e pura, ma rivendicata con il sorriso: che pochi giorni fa abbia mandato le guardia ad arrestare una giudice del Wisconsin, Hannah Dugan, per motivi politici, sembra essere un dettaglio. La platea applaude; i network conservatori mandano le immagini in loop.

I migranti sono l’avversario politico ideale: privo della forza elettorale per rispondere, perfetto per forgiare senso di appartenenza e consenso a buon mercato. Se le voci delle vittime reali – lavoratori con green card, venezuelani qualificati come nemici, addirittura bambini malati – si perdono in questo gioco macabro di riflettori e sparate, poco importa: la narrazione vuole funzionare producendo l’illusione di una minaccia esistenziale sventata in diretta.

A cento giorni dall’insediamento, la Casa Bianca espone il confine non come linea geografica ma come palcoscenico morale, sul quale misurare la lealtà dei cittadini e l’obbedienza delle branche governative.

L’America è diventata in un batter d’occhio un laboratorio di autoritarismo a presa rapida che normalizza l’eccezione. Se questa infinita serie di ritorsioni diverrà routine dipenderà in parte dai tribunali e in parte dall’attenzione dell’opinione pubblica. Ma il messaggio lanciato dal prato di Pennsylvania Avenue è chiaro: al nuovo corso conviene mostrarsi pronto a tutto, perché anche l’errore più tragico oggi può essere esibito. La vera foto ricordo di questi cento giorni non è quella dei volti appesi in fila a due passi dall’istituzione garante della «più grande democrazia del mondo»: è la nostra, mentre li guardiamo.

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