Quella della Global Sumud Flotilla è un’iniziativa che mira a essere la più grande mobilitazione marittima di quest’epoca, col fine dichiarato di rompere l’assedio israeliano di Gaza. È il risultato della coesione di un network di movimenti e vuole instaurare un corridoio umanitario “civico”, trasportando via mare gli aiuti umanitari di cui Gaza viene privata e aumentando l’attenzione internazionale verso la pulizia etnica in atto.
Il nome “Sumud” – che in arabo significa “resilienza” o “costanza” – simboleggia, in questo senso, proprio la volontà dei partecipanti di resistere all’indifferenza globale e di sferzare le complicità trans-nazionali nella strage in corso. È una missione esageratamente difficile, se non proprio impossibile, ma anche una che vuole anzitutto far passare un messaggio forte e chiaro al resto del mondo.
La cinquantina di imbarcazioni coinvolte è partita nei giorni scorsi da porti sparsi per tutto il Mediterraneo, e mira a giungere a Gaza entro la metà di settembre. Particolare eco, nella grancassa dei social media italiani, ha avuto la partenza di 25 barche da Genova, salutata da 40mila persone, dove i camalli – gli operatori del porto – hanno affidato tra gli altri a Riccardo Rudino, portavoce del sindacato Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) un discorso molto ricondiviso nelle ultime ore.
Voglio che sia chiaro a tutti: intorno a metà settembre queste barche arriveranno vicino alla costa di Gaza, vicino alla zona critica. Se noi per soltanto venti minuti perdiamo il contatto con le nostre barche, con le nostre compagne e i nostri compagni, noi blocchiamo tutta l'Europa [...]. Insieme al nostro sindacato Usb, insieme a tutti i lavoratori portuali che ci stanno, insieme a tutta la città di Genova... da questa regione escono 13-14 mila container all'anno per Israele: non esce più un chiodo. Lanceremo uno sciopero internazionale, bloccheremo le strade, bloccheremo le scuole, bloccheremo tutto, devono tornare indietro le nostre ragazze e i nostri ragazzi senza un graffio, e tutta questa merce che è del popolo e sta andando al popolo, fino all'ultimo cartone deve arrivare dove deve arrivare, altre cose non ci sono da dire.
Un discorso vero, sentito, efficace: per quanto mi riguarda, un antidoto ideale all’ignavia che tratta Gaza come se fosse un’aporia senza soluzione, e non il risultato di una politica globale complice e inane. Qualcuno l’ha definito «il miglior discorso politico degli ultimi anni», e io fatico a trovare obiezioni da muovergli.
Eppure, dopo l’ondata algoritmica di lodi e condivisioni, la mareggiata nel porto di Genova ha portato con sé una serie di distinguo, di ridimensionamenti e persino di prese di distanza. Tu dirai: vabbè, la solita destra. E invece, mirabile dictu, queste critiche alla Flotilla sono giunte da sinistra.
Riassumendole – ce ne sono diverse provenienti da profili variamente seguiti, additare singoli utenti è sgradevole e preferisco rimanere sul punto: se ti senti spaesato/a e vuoi riferimenti più precisi, chiedimi – tali obiezioni sostengono che mobilitarsi e accalorarsi per una spedizione di occidentali, per quanto con fini nobili e umanitari, risulta intrinsecamente colonialista. Altri utenti, influencer e non, hanno spiegato che la posizione di Rudino equivale a mettersi – lui, uomo bianco – al centro della narrazione, senza lasciare spazio alla «decostruzione attivamente antirazzista».
Non ci girerò intorno: mi pare incredibile che una mobilitazione popolare internazionale per consegnare aiuti umanitari a un popolo martoriato dall’aggressione di uno Stato canaglia attiri puntualizzazioni pelose non dai sostenitori, ma dagli avversari di quello Stato canaglia. È un rovesciamento pirotecnico, che frantuma l’attenzione mediatica per il fronte pro-Palestina nel momento di maggiore bisogno.
Preciso: la decostruzione delle posture e delle istituzioni coloniali, in sé, è una pratica importante e seria, con cui anche l’Italia dovrà fare i conti nei prossimi anni (e tanti auguri, se al governo ci sarà ancora la destra). Come sostiene Donata Columbro – un esempio virtuoso di collega che tiene la barra dritta nel mare magnum di Instagram, anche quando non sono d’accordo con lei – farlo significa «pensare qual è la posizione che occupiamo, di volta in volta», e non è sbagliato, anzi.
Quello della Flotilla però è il caso (nonché il momento) meno indicato in cui fermarsi a calcolare la propria percentuale di colonialismo, a mio modo di vedere; un movimento di base fatto di portuali, operai, attivisti, sindacati e persone comuni volonterose è riuscito a mettere in piedi un progetto con ricadute vere, concrete, che hanno catturato l’attenzione pubblica e sfidato l’inazione della comunità internazionale: perché fermarci a sottolinearne le presunte mancanze?
Intendiamoci, non è che le azioni con finalità umanitarie debbano essere esenti da critiche per statuto, che il white saviorism sia una sciocchezza e che non si possa (o non si debba) avviare una discussione interna ai movimenti per criticarne gli impianti occidentalisti... ma questi risultati si otterranno abbozzando un controcanto oggi, con cinquanta barche che veleggiano verso Gaza per portare le provviste a cui Israele impedisce di raggiungere la Striscia?
A me sembra che ogni pensiero, parola, opera od omissione, per buona o encomiabile che sia, sui social media porti inevitabilmente a un profilo con un seguito variabile che alza il suo ditino metaforico per dire, non di rado con un certo cipiglio: hey, avete presente quella cosa che vi piace? Non dovrebbe piacervi. Ecco perché.
È una dinamica alla base di queste infernali fabbriche di content che chiamiamo piattaforme: per svettare bisogna distinguersi, insinuare il dubbio, trovare il punto di attrito e allargarlo fino a renderlo una faglia di divisione; nuove polarizzazioni, nuovo engagement, nuovi follower e tutti contenti – tranne chi poi deve vivere nella realtà, suo malgrado.
Non ne faccio una colpa personale di influencer o content creator, perché giocano a un gioco che funziona con regole falsate a monte: ma perché non fermarsi a ragionare? Perché non riflettere su come questi distinguo, che si dicono a fin di Bene, una volta messi in circolo dagli algoritmi producono divisioni che avvantaggiano un Male con già fin troppo campo libero?
Anche perché i membri del Calp, insieme ai loro omologhi degli altri porti del Mediterraneo, bloccano le armi dirette agli scenari di guerra con azioni di protesta (non è successo solo con quelle da imbarcare verso Israele, ma anche con Yemen, Emirati Arabi, Arabia Saudita: basta fare una ricerchina) da anni, non da ieri. Quindi forse un po’ di anticolonialismo, di riffa o di raffa, l’hanno assorbito.
E se ci vogliamo decostruire seriamente, con metodo, lasciamelo dire: vedendo persone molto istruite che da casa loro fanno la punta ai compassi nautici di portuali partiti per mare a sfidare una potenza militare per consegnare cibo e farmaci, non posso non pensare che la società in cui viviamo, oltre che con il colonialismo, è ancora troppo tenera anche con il classismo.
E su questo secondo versante di discriminazione, purtroppo (o magari per fortuna), mi pare che l’influencing non abbondi. O sbaglio?
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