Mestizia privata


Lo so, lo so: non ne puoi più – e, credimi, io con te – di sentir parlare della storia delle chat di alcuni influencer/attivisti italiani, intercettati nell’ottica di un’indagine della Procura di Monza nei confronti di Carlotta Vagnoli e Valeria Fonte, due nomi molto noti su Instagram nel contesto dell’attivismo femminista, accusate di stalking.

Forse però qualcosa rimane ancora da dire, e mi perdonerai se provo a farlo con questo intervento.

È stato sottolineato – da me per primo – che quelle chat non avremmo dovuto poterle leggere. Selvaggia Lucarelli, l’autrice dell’articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano che ha dato la stura al caso, ha scelto di farsi giustizia da sola mettendo in fila quelle che somigliano a ripicche: verso le influ-attiviste in questione, con cui ha conti aperti e che in questo famigerato gruppo la prendevano di mira; verso la sua ultra-nemica e collega Guia Soncini, che compare nel sunto della storia per motivi imprecisati; verso le altre persone presenti nelle intercettazioni, anche se non risultano indagate.

I motivi per guardare con sospetto e cautela questo tipo di giornalismo dovrebbero essere di semplice intuizione, ma ripetiamo il principale: quello che privati cittadini, anche con un profilo pubblico, si dicono stravaccati sul divano la sera su WhatsApp non dovrebbe interessarci, a meno che non abbia a che fare direttamente col loro ruolo in società.

In questo secondo senso, ci sono alcuni passaggi rilevanti (a cui forse il Fatto avrebbe potuto dare un maggiore rilievo, mentre ha preferito concentrarsi sugli insulti a Mattarella, a Liliana Segre e a Cecilia Sala). Uno di questi, in cui a parlare è Vagnoli, recita:

Dobbiamo radicalizzare, attaccare, accusare. La cancel culture è l’arma più potente che il femminismo abbia avuto negli ultimi dieci anni.

Non solo: si discuteva, nel suddetto gruppo, dell’idea di aprire un profilo Instagram anonimo all’estero per potersi dedicare impunemente a call-out diretti a persone definite arbitrariamente abuser, in modo da causar loro – per citare la definizione brutale usata nei confronti di A. S., la vittima del trattamento di terra bruciata che ha denunciato le influencer – «una morte sociale, politica che non immagini».

In realtà, un grande non detto della vicenda è che, per le figure oggetto di indagine, il privato coincide largamente col pubblico. Ovvero: non soltanto andare a spulciare ciò che scrivevano in privato di persone che non stimano è eticamente ambiguo (dal mio punto di vista, almeno) e costituisce un livello di condanna morale a cui nessuno potrebbe sottrarsi, ma risulta anche inutile. Tutto ciò a cui bisognava prestare attenzione su quel versante avveniva alla luce del sole, e così è stato per anni.

Fonte incoraggiava delazioni e la costruzione di liste di proscrizione di presunti abuser da mettere all’indice in pubblico; Vagnoli mandava nei campi di rieducazione dei suoi numerosi follower redattrici che non avevano inserito un asterisco in un libro in pubblico. Il nocciolo della questione è stato pubblico dal giorno uno; da quando il sistema culturale ha cooptato, coccolato e provato ad assorbire – con libri, ospitate in tv, inviti a festival, collaborazioni e quant’altro – attiviste il cui registro e la cui agenda sono sempre stati questi.

Con tutta la buona volontà, non riesco a capire come da questa storia si possa trarre una lezione per cui in Italia – ora lo sappiamo! – ci sono femministe che predicano bene e razzolano male, dato che augurano cose turpi a personaggi famosi, politici, giornalisti e colleghe: se questo fosse il metro da applicare, magari tanti non arriverebbero a livelli di astio così estremizzati, ma nessuno sarebbe moralmente titolato a prendere posizione su niente.

Ma qui la questione è diversa. Perché negli ultimi anni qualcuno ha iniziato a porre il dubbio che quel piano inclinato di resa al consenso algoritmico, alla polarizzazione facile e all’engagement para-pubblicitario delle cause avrebbe prodotto ircocervi temibili e dai piedi d’argilla. È un gruppo in cui mi inserisco volentieri, dato che il mio libro uscito nel 2023 verte largamente su questi argomenti.

Solo che per anni ci è stato prontamente risposto da schiere di pretini corporativisti che si trattava di timori eccessivi, che non stava succedendo niente di rilevante, che avevamo anzi pregiudizi anti-tecnologici... quando non, direttamente, che sotto sotto ce l’avevamo con la sinistra perché eravamo, insomma, diciamocelo, dai, di destra (la mia preferita, benché per fortuna molto rara nel mio caso).

Avvolgiamo veloce fino ad oggi: effettivamente le star dell’influ-attivismo italiano, in assoluta coerenza con ciò che suggerivano le loro Storie e i loro Reel, hanno sostituito alla politica una performance egoriferita poggiante su dissidi personali, ex amicizie, storie di tradimenti o di antipatie, eccetera; effettivamente la più celebre e influente fra di loro rivendicava in senso politico la «cancel culture» come «l’arma più potente che il femminismo abbia avuto negli ultimi dieci anni», mentre nel resto del tempo ne negava spazientita l’esistenza più remota (e i pretini in coro: bravissima! Vieni a parlarne al mio festival!). Effettivamente, in altre parole, questa saldatura tra social media e politica presentava lati oscuri, conflitti irrisolti e aporie, ben esemplificati da una propaganda dichiaratamente – ripetiamolo – volta a dividere e radicalizzare.

Beninteso: a me non interessa nulla sentirmi dire che ho avuto ragione – qualsiasi cosa significhi averla in uno scenario complesso, multiforme e reso una pantomima di ripicche come questo – o che qualcuno mi dia una coccardina-premio per aver sottolineato questo o quell’aspetto rilevante in questa querelle. Ci mancherebbe altro.

Vorrei però che qualche nome, tra quelli dei progressisti artefici della cultura mainstream che hanno dato spazio, legittimità e nuovo pubblico a questo modo di intendere la politica e l’attivismo, oggi si fermasse un secondo e si facesse il proverbiale esame di coscienza. E non certo perché c’è chi ha augurato la morte al presidente della Repubblica e schernito una giovane prigionera politica in Iran o Selvaggia Lucarelli: quelle sono antipatie personali, espresse in un contesto informale fra amici.

Quest’epoca ci ha abituato a ficcare il naso in ogni aspetto della vita delle persone, sfumando i confini tra pubblico e privato, e in un certo senso gli influencer assaggiano il gusto amaro di una medicina di cui hanno contribuito a perfezionare la ricetta. Ma oltre alla dimensione individuale che il capitalismo libertario della Silicon Valley ha elevato a ordine dominante c'è ancora una dimensione collettiva: è a quella che dobbiamo guardare.

Quando il saggio indica le avvisaglie di deriva sociale, viene da dire, lo stolto guarda il contenuto di una chat: ma quest’ultimo farebbe bene a farsi gli affari suoi e tornare al piano del pubblico; è quello in cui un’incarnazione ultra-liberista della tecnologia comunicativa di quest’epoca ci sta rendendo tutti più appiattiti, assuefatti alle logiche del marketing e, in definitiva, manipolabili.

  • Com’è guardare uno spettacolo – quello spettacolo – di stand-up comedy in Arabia Saudita;
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