Maledire Putin, bandire Dostoevskij

Ciao, qui Davide Piacenza, tizio a caso dell’internet con un penchant per la scrittura, e la sua Culture Wars, una newsletter dedicata ad approfondire quelle cose che di solito mettiamo nel calderone indistinto del “politicamente corretto”.

Continuano a essere giorni – consentimi l’uso dell’aggettivo, per una volta non abusato – drammatici per l’Europa e il mondo, e inevitabilmente partiremo da lì anche per discutere dei nostri temi. Gli spunti, d‘altronde, non mancano.


Hex Putin

L’altro giorno un’attivista molto seguita sui social, Sofia Righetti, ha postato una serie di storie su Instagram per pubblicizzare un’offerta in abbonamento ai suoi follower.

L’influencer in questione è una femminista che si occupa di stregoneria: si rivolge alla sua coven, la comunità di streghe con cui esegue rituali, e declina i temi femministi a partire dal suo expertise nel magico e nell’esoterico. Personalmente, per quel che vale, non la conoscevo prima della polemica sorta attorno a lei in questi giorni, né posso certamente dirmi un esperto del suo approccio, ma devo dire che i legami – anche storici – tra femminismo e stregoneria di cui parla in alcuni interventi appaiono affascinanti. Ma chiudo la parentesi.

All’inizio della settimana, l’attivista «strega» Righetti (così si definisce lei stessa, preciso) spiega che c’è una nuova offerta sul suo Patreon: la traduzione in italiano di un rituale di prossima recitazione per «streghe e pagani» votato a rimuovere dal Cremlino Vladimir Putin (oh, don’t laugh, per citare Michael Jordan: le comunità di streghe ne avevano fatti anche per far eleggere Joe Biden o sostenere Black Lives Matter, se è per questo). Nella sua versione originale, il sortilegio antiputiniano si può trovare qui. L’influencer dice di averlo «voluto proprio dare a tuttə le persone», inserendolo nella fascia di abbonamento più bassa del suo piano per sostenitori, quello da 1€/mese.

Della vicenda sono venuto a conoscenza per via di un tweet salace del mio caro conoscente comunista (così si definisce lui stesso, preciso) Mattia Salvia.

Di questa storia è interessante parlare sotto diversi aspetti: il primo che noto è come l’influencer si è giustificata dicendo che il suo Patreon è un «safe space» che le permette una distanza di sicurezza dai troll, e che quindi quell’euro sarebbe una sorta di accortezza obbligata dalla sua situazione (in un secondo momento, la strega ha corretto la rotta, annunciando che tutti i ricavi sarebbero stati donati alla Croce Rossa ucraina).

Saltando a piè pari l’opportunità di pensare di poter reclamizzare uno spazio a pagamento a partire da una guerra in corso, su cui immagino saremo tutti d’accordo, c’è poi che in un secondo momento le storie della influencer sono state prese e pubblicate in blocco da una popolarissima giornalista con un milione di follower su Twitter, Selvaggia Lucarelli, che le ha esposte al ludibrio dei suoi follower. E anche questo, come posso dire, no buono.

Nel mentre, profili che di solito dedicano la loro quotidianità a shitstorm feroci ai danni di altri malcapitati, e avversari veri o presunti, scoprivano un mondo di distinguo, dato che una «transfemminista intersezionale» (cito dalla bio di Righetti) talvolta si difende per spirito di corpo: «puoi sempre passare oltre se non interessato», «ha aperto il suo Patreon un anno fa», «cercatevi altri da odiare», eccetera.

Il tema portante, comunque, mi pare uno in particolare: la monetizzazione dell’attivismo. Ed è un tema gigantesco, difficile, fraintendibile e strumentalizzabile: fino a che punto un influencer impegnato in buone cause è eticamente legittimato ad avere entrate dipendenti dalle interazioni dei suoi post su Instagram o Twitter? E come si individua questo punto? E il suddetto influencer, sapendo che più interazioni significano più soldi, mirerà ad aumentarle costi quel che costi, o saprà fermarsi e autoregolarsi, ricordando a se stesso che parla a platee enormi e spesso giovanissime?

È moralmente accettabile vendere a un’azienda produttrice di assorbenti un post femminista (un esempio recente che mi viene in mente, fra i tanti)? E se quell’azienda, oltre a un discreto budget per il marketing, avesse anche un board di soli uomini? O mettesse in atto politiche discriminanti? Ma poniamo invece che sia una società integerrima, per quieto vivere: veicolando un messaggio nei modi e termini in cui lo vuole un committente che ci si aggrappa a fini di marketing non lo si svilisce, rendendolo l’esatto contrario di ciò che dovrebbe essere (condiviso, pubblico, sincero, senza secondi fini)?

Quello del Patreon reclamizzato è un caso solo parzialmente accostabile a quello degli assorbenti reclamizzati, ovviamente: sostentare la propria attività con le donazioni di chi la apprezza è molto diverso da farsi dettare i contenuti da un’azienda. Ma alla radice, specie se viene promosso in concomitanza con un conflitto che sta tuttora facendo vittime, rivela lo stesso arcano problema: ci si può fidare in tutto e per tutto dell’opera di un singolo influencer, quando quest’ultimo è portato dalla natura stessa delle piattaforme da cui dipende a rendere i suoi contenuti non solo più semplici e decontestualizzati, ma anche sempre più “sul pezzo”, spasmodicamente a traino della viralità e mirati all’engagement?

Non sono un particolare sostenitore delle cause della stregoneria, ma penso che Righetti non faccia effettivamente del male a nessuno: chi vorrà partecipare ai suoi riti pagherà; chi non vorrà partecipare non parteciperà, al limite li deriderà, eccetera. Senza contare che mi sembra lecito che chi dedica grandi quantità di tempo e lavoro a una causa possa averne di che vivere. Quel che mi preoccupa, semmai, è un contesto in cui poterne vivere meglio significa spararla più grossa, creare più “casi” e “incidenti” e incontrare gli interessi tutt’altro che inclusivi di multinazionali che devono incrementare i propri fatturati.

Non so come la vedi tu, ma a me sembra un sistema altamente perverso, di quelli progettati per fare impazzire. La famigerata creator economy, peraltro, che prometteva di allargare l’accesso ai media e di dare spazio sul palcoscenico alle voci minoritarie, finora non ha fatto altro che concentrare le risorse economiche nelle mani di una ristrettissima oligarchia. Gli altri fanno quel che possono, dalle #adv alle fatture a Putin.

Quella cosa là del povero Fedor Dostoevskij

Di questo si è discusso molto. In un video pubblicato su Instagram in cui è apparso visibilmente commosso (qui il video), lo scrittore emiliano Paolo Nori ha comunicato che l’Università Bicocca, dove insegnava, aveva annullato un suo corso su Dostoevskij «per evitare ogni forma di polemica in quanto momento di forte tensione». L’ateneo è poi tornato sui suoi passi e ha affidato al Corriere della Sera – per tramite del prorettore Maurizio Casiraghi – una motivazione, a volerla chiamare così, che sa di incredibile.

L’intenzione era ristrutturare il corso e ampliare il messaggio per aprire la mente degli studenti. Aggiungendo a Dostoevskij anche alcuni autori ucraini.

Nori, infine, ha deciso di andare a insegnare altrove.

Si fa fatica a parlarne, di questa vicenda, perché si fa fatica a trovare un punto da cui cominciare a farlo. Quale «polemica» possa ipoteticamente scatenare un romanziere morto centocinquant’anni fa, e che peraltro da vivo nel 1849 è stato condannato a morte in quanto lettore di ciò che non si poteva leggere, non è dato sapere. Quanto avvenuto nelle testoline del rettorato sconfina nell’inintelligibile.

Ora, siccome su Twitter la vicenda è subito diventata uno spunto per il solito derby rusticano: a me non potrebbe fregare di meno di parlare di quella cosa là, dell’etichetta su cui ci si scorna, del muscolo involontario della frecciata a quegli altri di là. Gli appassionati di calcio conoscono la goal line technology, quella che stabilisce se il pallone ha varcato interamente la linea di porta, ma quelli di politica via shitstorm sono ormai a tanto così dal dover richiedere la cancel culture technology.

Non so tu, ma io comincio a esserne esausto: penso che il problema delle interazioni sociali e comunicative nel mondo che abbiamo costruito vada molto oltre una definizione controversa, e credo che sia più giusto parlare di quelle situazioni specifiche, ormai trascurate in nome della fondamentale battaglia sul “lo è o non lo è?”.

Una di queste situazioni, l’altro giorno, ha riguardato un talentuoso, sensibile scrittore e russista a cui voleva essere impedito di portare avanti le sue lezioni su un autore universale, nonché un celeberrimo simbolo di sfida all‘imperialismo, perché un’università ha pensato come il marketing manager paraculo di una catena di caffetterie, e si è detta sai che c’è? Ora con Dostoevskij si rischia di non vendere, di intercettare un “sentiment” negativo: mettiamolo da parte.

Non so come altro dirlo: queste cose – per quanto limitate, eccezionali, sciocche possano sembrare – sono gravi, e testimoniano che oggi intorno a noi, persino nella civilissima e modernissima Milano, esiste un clima per cui il dicibile e l’insegnabile sono da parametrare in base alla loro “presentabilità” hic et nunc, a come potrebbero essere eventualmente accolti da qualche folle che tira calci alla sabbia, alla comodità con cui ci si può avvicinare alla loro decontestualizzazione acritica. Se un autore è *russo* avrà bisogno di un autore *ucraino* a riequilibrare un inesistente bilancino, dacché noi siamo buoni e bravi e anticipiamo le sensibilità degli studenti. Giusto?

Che una certa ondata di russofobia sia già ampiamente in atto mi sembra assodato (grazie, EA Sports, per aver rimosso le squadre di calcio russe da Fifa 22: avrei vissuto come una terribile violenza nei confronti del popolo ucraino fare una partita con riproduzioni virtuali dei giocatori dello Zenit San Pietroburgo. Also, siete degli idioti), e non mi sorprenderebbe sapere che sarà un tema di cui parleremo a lungo nelle prossime settimane. Ma è un fatto che in questa ondata sguazzano con diletto aziende, istituzioni e semplici comuni mortali che bramano di mostrare al mondo quanto sono più bravi e sensibili degli altri, e quindi in questo momento più vicini all’Ucraina, e quindi lontani da ogni abboccamento con (o distinguo per) le cose russe, roulette e insalata comprese. E garruli algoritmi sospingono la marea montante sempre un po' più in là, verso l’orizzonte dell’intolleranza.

I casi come quello toccato in sorte a Paolo Nori, per quanto mi riguarda, puoi chiamarli come vuoi. Mi basta che si parli dei motivi per cui esistono, perché non sono caduti dal cielo ieri mattina. Intanto l’Università Bicocca farebbe bene a restituire il titolo di «Università», con cui non pare avere nulla da spartire.

Altre news dal fronte

(Spero che questo machismo bellico russo finisca presto ANCHE perché non posso più leggere questo «dal fronte» – e non solo questo – senza provare un dolorino al petto. Scusa, la grafica è fatta così, che devo dirti).


  • Una prece per questo tizio, innocuo e perlopiù incolpevole come tutti, che ha pensato bene di definire la reazione internazionale all’invasione putiniana «la prima “cancellazione” geopolitica del XXI secolo». Devo dire che leggendolo ho riso, o forse ho pianto; in ogni caso, sempre contare fino a dieci quando non si ha nessun hot take da postare sui social network;
  • Una prece anche per l’innocua attivista asessuale che pubblica questo incredibile post di critica del proverbiale “fate l’amore non fate la guerra”, anche perché, cito, «"Fate" è imperativo. L'imposizione di fare sesso è cultura dello stupro oltre che allonormatività»;
  • Tra le linee narrative sull’invasione dell’Ucraina più popolari a destra c’è quella – ribadita in prima persona da quel pozzo di scienza di Matteo Salvini – secondo cui lo zar avrebbe approfittato delle divisioni sociali in occidente per sferrare il suo attacco: «L’occidente passa più tempo a parlare di pronomi che di cose importanti», ha brontolato il pundit e comico Konstantin Kisin, per poi chiarire la sua posizione in un infinito thread pubblicato su Twitter. Se alcune delle critiche di Kisin alla wokeness hanno senso (su tutte, una certa autoflagellazione culturale continua, che di certo non può che far piacere ai Putin di turno), il suo discorso non sta molto in piedi. Come ha scritto Cathy Young: «La visione dell'Occidente liberale come decadente, debole e lacerato da profonde divisioni era comune nelle società autoritarie e totalitarie (compresa la Russia sovietica) già molto prima che esistesse l’attuale definizione di “woke”». E ben più che i pronomi, ad aiutare Vladimir Putin sono stati il gas e il petrolio.

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