Un autentico circolo vizioso


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Giorni così densi, di eventi sui social media e discussioni intorno ai social media, sono un buon momento per fare il punto sulla fase che stiamo attraversando, e per isolare alcuni elementi significativi sui quali continuare a riflettere nel prossimo futuro. Per non mettere alla prova la vostra pazienza, eviterò di dilungarmi sui fatti già noti e mi concentrerò sul filo che li lega.

A proposito di fili, da poco più di una settimana gli utenti europei hanno finalmente accesso a Threads, la nuova piattaforma di Meta che vuole far concorrenza a Twitter/X. Queste prime giornate non permettono di fare previsioni accurate sulla piega generale che prenderà l'ambiente, ma qualcosa di interessante è già emerso dalle dichiarazioni d'intenti di alcuni player di rilievo.

Faccio solo alcuni esempi, tra i molti post inaugurali notevoli: Beppe Sala ci ha tenuto da subito a specificare che non avrà un social media manager; il Napoli calcistico si è chiesto «come ci sono finito qua», alla prima persona singolare; Tommaso Paradiso ha postato un vocale in cui diceva «No vabbè questa è proprio robba mia, ahahah», testimoniando così di essere stato proprio lui a premere il tasto «Pubblica».

Questi approcci sono sintomatici di un fenomeno più ampio. Ci troviamo al punto d'incontro tra una necessità e un desiderio: la necessità, da parte di chi cerca esposizione pubblica, di mettere le mani avanti e anticipare che la propria comunicazione non potrà essere sempre ineccepibile; il desiderio più o meno conscio, da parte del pubblico stesso, di una qualche forma di autenticità, di una boccata d'aria genuina su Threads che permetta di prendere le distanze dalle mitomanie di Facebook, dalle pagliacciate di TikTok e dalle artificiose vanità di Instagram.

Eppure, su Threads non puoi che entrare in connessione con le medesime persone che erano già sugli altri social: chiunque sia su Threads aveva già un account altrove. Cosa speri di sapere di più su quelle persone? E loro cosa sperano di poterti dire di più su di sé che prima non potevano dire? Viene il dubbio che stiamo cercando soluzioni ai nostri disagi su piattaforme identiche a quelle che li hanno creati.

Il desiderio di autenticità, frustrato e ravvivato in un intreccio d'interpretazioni diverse, è stato centrale anche nel caso socialmediatico-giudiziario della settimana. Non credevamo che Chiara Ferragni potesse materialmente avere dei segreti, perché non sembrava esistere un momento della sua vita che non fosse reso pubblico su un social o trasmesso in streaming. L'Antitrust invece ha multato lei e Balocco per aver tradito la fiducia dei consumatori; per aver detto, deliberatamente o meno, il falso.

Oggi Chiara Ferragni è qualcosa di più che una semplice influencer – è una celebrità tout court – ma se la sua ricchezza e il suo potere hanno una legittimazione originaria, questa deriva proprio dalla fiducia che una larga fetta di utenti-consumatori ripone o ha riposto nell'affidabilità e nell’autenticità di Ferragni. Forse per questo, i suoi tentativi di tirarsi fuori dal guaio reputazionale non potevano che iniziare con l’apparizione in video su Instagram.

Molti hanno sottolineato gli elementi di cui era costruita la performance: le lacrime, lo sfondo anonimo, i colori spenti, la luce dall’alto, e così via. È un curioso paradosso: un video normale, come se lo potrebbe fare una persona qualunque che non disponga di una luce frontale né di assistenti all'immagine o di abitudine a filmarsi, sa subito di farlocco se a realizzarlo è Chiara Ferragni. Sotto al reel, Guy Debord avrebbe forse commentato che «nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso».

Quando scrivi “Influencer che cerca disperatamente di mostrarsi autentica in un video per Instagram” nel generatore immagini di Bing, appare questo.

Chi cercava conferma al sospetto che la Chiara Ferragni sempre in scena fosse in realtà una marionetta, controllata ossessivamente dalla Chiara Ferragni dietro le quinte, avrà goduto nel vederla smascherata dall’Antitrust e poi dalle centinaia di meme e commenti sarcastici. Specularmente, chi cercava conferma alla visione di Chiara Ferragni come donna intraprendente e volitiva, fallibile ma sincera, avrà apprezzato di vederla fedele a sé stessa, pronta a reagire dal fondo del suo momento di debolezza. Il video ha totalizzato 1.4 milioni di like, numeri che nemmeno lei fa tutti i giorni, e la tuta grigia che indossava – prezzo: 600 euro – è andata rapidamente sold out.

Entrambi questi punti di vista, però, restano impelagati nel tentativo di stabilire una verità su Chiara Ferragni, sulla sua autenticità, attraverso ciò che posta sui social. Anche chi non crede a lei, rischia di credere all'autenticità di chi demistifica i video di Chiara Ferragni; brave persone, non lo metto in dubbio, ma comunque diverse da ciò che postano.

Viene da fare un parallelo con ciò che è successo all'informazione nell'ultimo decennio: il proliferare di notizie inverificabili o false ha fatto fiorire il mestiere del debunker, quello che smentisce le fake news e riporta tutto sul piano della realtà; solo che il piano della realtà, come l'autenticità, non è un concetto autoevidente, e presto ci siamo ritrovati con i debunker di una certa parte politica opposti ai debunker di un’altra parte politica. Tutti sono convinti che circolino innumerevoli notizie false, ma tutti pensano che quelle false siano le notizie su cui si informano gli altri.

Per tornare al caso in oggetto, credo che sia importante resistere alla tentazione di cercare l’autenticità, nella propria autorappresentazione social così come in quella altrui. Si tratta di un orizzonte destinato a spostarsi sempre più in là a ogni passo, e inseguirlo significa cadere in una trappola. Significa abboccare a strategie di marketing, da una parte, e trattare sé stessi come oggetti da cui estrarre valore attraverso strategie di marketing, dall'altra.

Il modo in cui sono progettati i social media e il modo in cui abbiamo imparato a viverli – la possibilità di rendersi più visibili andando incontro alle richieste dell’algoritmo, la centralizzazione di un feed unico in cui leggere i post di tutti, il suggerimento automatico di contenuti da account che non seguiamo, l'esistenza del tasto «Condividi» e altro ancora, come ho approfondito quiimpedisce strutturalmente un’autorappresentazione autentica, e forse proprio per questo la rende tanto desiderabile.

Ma sui social ogni nostro contenuto diventa temporaneamente tutto quello che siamo, e non sarà producendo infiniti cloni di noi stessi che raggiungeremo l'identità completa, coerente e compatta a cui aspiriamo; né sarà consumando contenuti altrui che potremo valutare l'integrità della loro. Chissà, forse la stessa Chiara Ferragni è presa in questo gioco di specchi e non può ormai fare altro che continuare a esibire, in modo volontario e involontario, i lati di sé che emergono dai casi a cui la espongono le sue scelte e la mera sorte.

Come interrompere questo circolo vizioso? Difficile rispondere; di certo non basterà cambiare piattaforma, postare senza pensare o licenziare il social media manager.

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