Musa al-Gharbi, il sociologo della Columbia che ha scritto il libro più interessante che abbia letto sui temi di questa newsletter (si intitola We Have Never Been Woke: The Cultural Contradictions of a New Elite, l’ha pubblicato Princeton University Press e personalmente mi ci sono imbattuto l’anno scorso, a poche settimane dall’uscita, in una libreria di San Francisco), è una persona di una gentilezza rara: quando appare nella finestra della nostra riunione Zoom, si scusa di non essere riuscito a rendersi disponibile prima, ma – dice – è stato molto impegnato col tour di lancio del libro.
Pochi giorni prima mi aveva spiegato di essere atterrato in Canada con un ritardo di diverse ore, e di aver scoperto all’aeroporto, in piena notte, che la sua sim non funzionava, costringendolo a salti mortali senza fine.
Pur essendo stato definito «una stella in ascesa nel panorama intellettuale» degli Stati Uniti da David Brooks sul New York Times, al-Gharbi non risponde all’identikit del pundit mainstream d’oltreoceano: viene da una famiglia di militari dell’Arizona, è afroamericano e musulmano praticante, e prima di laurearsi alla Columbia non aveva mai avuto affiliazioni a grandi istituzioni della costa americana.
Eppure, il suo libro ha aperto una breccia nei discorsi che hanno colonizzato le nostre discussioni degli ultimi anni: per la prima volta, un’opera di saggistica con solide basi accademiche ha indagato il terreno di coltura dei discorsi woke, dissodandolo e analizzandone la composizione e le radici che vi attecchiscono.
Al-Gharbi mostra, con una mole rilevante di dati (tabelle, sondaggi, Google nGram, trend occupazionali e altro), che le ondate di «Awokening», come le chiama, sono cicliche e servono anzitutto a ridefinire le gerarchie all’interno del ceto intellettuale, piuttosto che a emancipare i gruppi marginalizzati. E – tutt’altro che un dettaglio – non lo fa demonizzando le istanze progressiste; al contrario, smascherandone le distorsioni e le strumentalizzazioni ne sottolinea l’importanza, criticandone le appropriazioni controproducenti che funestano quest’epoca.
Il concetto di partenza del libro è quello del “capitale simbolico” caro al sociologo Pierre Bourdieu, usato per spiegare – e dimostrare – come molti fra gli attori più «woke» difendano in realtà niente altro che i propri privilegi di censo, in modo più o meno conscio.
Tra gli esempi iniziali portati dall’autore, ci sono i comportamenti escludenti che le élite “inclusive” adottano verso le persone marginalizzate in carne e ossa che hanno intorno ogni giorno (homeless, rider a domicilio, personale di servizio), a cominciare dalla fretta con cui chiedono benefit per sé – come nel caso delle concessioni accademiche richieste dopo l’omicidio di George Floyd nel 2020 – non considerando per nulla la condizione reale delle minoranze che si trovano ai margini dell’università.
Ho contattato Musa al-Gharbi per chiedergli perché in questi anni non siamo «mai stati woke» – e cosa pensa dell’attivismo contemporaneo, al di là dei portavoce social e i loro conflitti d’interessi. Questo è ciò che mi ha detto.
⪢ Un pilastro centrale del tuo libro è l’argomentazione secondo cui le priorità dei capitalisti simbolici tendono a essere in contrasto con le esigenze concrete di coloro che dicono di voler aiutare. Perché secondo te questo dato di fatto, in sé piuttosto semplice e oggettivo, è stato cancellato dal dibattito? È perché le élite controllano le narrazioni? C’entra anche il discorso sui social media?
Musa al-Gharbi: Credo ci siano un paio di fattori che creano questa situazione. Uno, come dicevi, è che le persone che controllano le narratives sono anche quelle che hanno interesse a vedere e rappresentare il mondo in un certo modo. Molti tra coloro che scrivono per il mondo accademico, il New York Times, eccetera, e che raccontano ciò di cui secondo loro avrebbero bisogno gli afroamericani o le classi lavoratrici, non hanno alcun legame organico con le persone che dicono di voler rappresentare.
E invece di spendere tempo ed energie per raccogliere dati rappresentativi a livello nazionale, o andare nelle comunità a parlare coi diretti interessati, è più facile trovare una persona nominalmente “di quella comunità” – ovvero soltanto gay, nera, trans – ma in realtà parte di un’élite, e usarla come sostituto simbolico. Non si fermano mai a pensare al fatto che un columnist nero del New York Times difficilmente rappresenta l’opinione media dei neri. E spesso nemmeno quel columnist se ne rende conto. Pensiamo di essere rappresentativi solo perché apparteniamo a un dato gruppo.
Io ho iniziato a riflettere su questo occupandomi di politica estera e sicurezza nazionale. Mi sono reso conto che c’era un problema quando gli Stati Uniti volevano capire, per esempio, come avrebbero reagito gli iracheni alla caduta di Saddam Hussein, o gli iraniani a un regime change; beh, non potevano fare sondaggi in quei luoghi. Allora cercavano gli expat: iraniani o iracheni emigrati in America. Ma spesso chi lascia un Paese non è rappresentativo di quello Stato; anzi, col passare del tempo lo diventa sempre meno. Però non se ne rende conto. E così si finisce per credere che “gli iraniani” odino la Repubblica Islamica, perché tutti quelli che conosci qui la odiano.
Ho notato quanto spesso si cerchi una “voce rappresentativa” che però non lo è affatto. E nel libro cerco di dimostrare che lo stesso succede con i portavoce delle minoranze nel dibattito nazionale statunitense.

⪢ Cito ancora dal libro: scrivi che i «Grandi Risvegli» (Great Awokening) hanno raramente portato benefici concreti ai più vulnerabili. Si potrebbe obiettare che movimenti come MeToo o Black Lives Matter abbiano prodotto almeno consapevolezza sociale, però. Cosa risponderesti?
Due cose. Primo: se il cambiamento di atteggiamenti e consapevolezza non si traduce in modifiche nei comportamenti o nella distribuzione delle risorse, allora in fondo non cambia molto. Uno dei messaggi chiave del libro è che ciò che pensiamo, sentiamo o diciamo conta molto meno di quanto si creda. Anche quando parliamo di disuguaglianze razziali o di genere: puoi far sentire tutti responsabili o in colpa, ma se nessuno cede parte delle proprie risorse, non otterrai risultati.
Si pensa che se cambi il cuore e la mente delle persone, cambierà anche il loro comportamento. Ma una delle cose che volevo sottolineare nel libro, e che spero possa venire colta, è che la realtà è più complicata di così: non c’è una corrispondenza automatica tra ciò che pensiamo o sentiamo e ciò che facciamo.
I luoghi più impegnati in termini di cuore, mente e fede nella giustizia sociale... sono anche i luoghi dove le disuguaglianze sono più marcate, o dove la gerarchia è più forte, o dove la mentalità è più ristretta. Quindi non è vero che se cambi il cuore e la mente delle persone, poi automaticamente cambieranno i loro comportamenti.
Secondo punto: anche a livello di “cuori e menti”, il risultato è stato ambiguo, se non negativo. Per esempio, sul tema della razza e della polizia: alcune delle posizioni estreme sposate hanno in realtà tagliato le gambe al movimento bipartisan che era in crescita prima di Black Lives Matter, in parte anche tra i Repubblicani. Oggi è tutto fermo. Anzi, stiamo assistendo a passi indietro, anche in campi come le questioni legate alle persone trans e alle questioni di genere. E alcune delle misure più dure dell’amministrazione Trump, come i campi di detenzione senza processo, risultano persino popolari.
Lo stesso vale per il MeToo: c’è uno studio secondo cui uno degli effetti principali del movimento è che molti uomini hanno smesso di fare mentoring a colleghe donne, per paura di essere fraintesi o di danneggiarle involontariamente. E così preferiscono semplicemente lavorare con altri uomini. Quindi anche a livello di atteggiamenti e relazioni interpersonali, gli effetti sono stati spesso negativi.
⪢ Un altro passaggio del tuo libro che ho trovato affascinante è dove si parla di una «convergenza ideologica» tra liberal e sinistra radicale nell’ultimo decennio. A prima vista sembra un’affermazione contraddittoria, visto quanto i due gruppi attigui si scontrano sui social. Come lo spieghi?
C’è una forte divergenza retorica, ma molta meno a livello di comportamenti concreti. Per esempio: alle primarie i radicali votano per Sanders o Warren, i liberali per Biden o Harris. Ma poi, alle elezioni generali, votano tutti Democratico. Anche chi dice “questa candidatura è un disastro”, poi vota comunque per il partito del centro-sinistra.
Lo stesso vale per il mondo accademico. I liberal e i radicali si comportano allo stesso modo. Nella pratica non c’è nessuna differenza di rilievo: entrambi lottano con ferocia per ottenere posti a tempo indeterminato, entrambi sfruttano i docenti precari per alleggerire il proprio carico di lavoro, entrambi cercano di consolidare le proprie posizioni.
Lo posso dire per esperienza diretta: non c’è chissà quale differenza di comportamento tra i professori di sinistra e i professori moderati. E lo stesso vale in tanti altri ambiti: fanno gli stessi lavori, si comportano nello stesso modo, vivono nelle stesse comunità, votano allo stesso modo. C’è pochissima diversità sul piano della pratica: a essere diverso è il piano della retorica.
E c’è stata una convergenza interessante: i sindacati sono diventati più woke, e i woke hanno iniziato a simpatizzare maggiormente per i sindacati. Ma questo ha creato problemi per il sindacalismo in alcuni casi, perché oggi sempre più spesso a entrare nel settore sono persone uscite direttamente dal college, senza esperienze lavorative reali.
Prima i leader sindacali erano persone che avevano lavorato in fabbrica, poi si erano attivate nel sindacato, e infine avevano assunto un ruolo sindacale a tempo pieno. Conoscevano i lavoratori e le loro esigenze. Oggi invece i dirigenti spesso non conoscono i bisogni dei lavoratori. Hanno, nei fatti. priorità diverse.
Negli ultimi cinque-dieci anni, ad esempio, in molti sindacati la priorità è stata assicurarsi che si facessero dichiarazioni giuste su Black Lives Matter. Ai lavoratori normali, però, in media non interessa molto di cosa pensa il loro sindacato di queste cose. Anzi, preferirebbero che non ne parlasse proprio, e che le sue quote sindacali portassero a salari più alti, condizioni migliori e sicurezza sul lavoro. Le questioni morali o identitarie non hanno a che fare con il loro quotidiano.
Perciò, man mano che i sindacati si spostano in quella direzione, molti lavoratori normali li abbandonano. Per cui si assiste a due tendenze parallele: mentre i capitalisti simbolici si avvicinano ai sindacati, molti lavoratori fanno il percorso inverso e li abbandonano.
⪢ Parli molto di come i capitalisti simbolici cooptano le cause sociali per interesse particolare. Come funziona, concretamente?
Un esempio che faccio nel libro è il concetto di “privilegio bianco”. L’idea è che i bianchi godano di vantaggi immeritati per via della loro appartenenza razziale. Ma c’è molta ricerca, ormai, che mostra che in pratica, indipendentemente dall’intento della formazione sul privilegio bianco, l’effetto concreto è che le persone finiscono per giudicare peggio i bianchi poveri. Si finisce per pensare: “Beh, se sei bianco e povero, allora sei davvero un fallito”. E questo risulta molto comodo per le élite: la maggioranza dei poveri negli Usa è ancora di pelle bianca. Se convinci te stesso che non gli devi nulla, che è gente che ha sprecato i suoi privilegi, allora puoi blindare lo status quo – e sentirti persino moralmente virtuoso facendolo.
⪢ Una delle parti più convincenti del libro è la critica al fatto che molti dei più ferventi sostenitori del pensiero woke non sembrano aver letto per bene i testi da cui dicono di trarre ispirazione. È così?
Sì. Mi è capitato ultimamente di leggere un ottimo articolo – credo pubblicato dallo Spectator – che mostrava come molte idee woke siano nate su Tumblr, tra ragazze adolescenti che conoscevano questi concetti per sentito dire. E da lì si sono diffuse.
Questa è una delle cose che mi irrita di più, quando sento certe argomentazioni dalla destra. Se prendi sul serio la parodia che ne fanno personaggi come Christopher Rufo o Donald Trump, dovresti credere che le università siano dominate da esperti di Marx, militanti votati alla praxis e istituzioni rivoluzionarie. Ma chiunque abbia passato un po’ di tempo in accademia sa che è un ambiente molto escludente, super gerarchico… Non sono nemmeno lontanamente un esempio di realizzazione del pensiero comunista, socialista o anche solo di giustizia sociale.
Invece, nei contesti della sinistra, capita spesso che le persone facciano riferimento a concetti come “intersezionalità” o “matrice dell’oppressione”. Ma si vede chiaramente che non hanno letto le loro autrici originali.
Prendi l’intersezionalità di Patricia Hill Collins: molti credono che significhi semplicemente accumulare “patenti a punti” di oppressione, e chi ha più caratteristiche oppresse va ascoltato di più. Ma Collins dice proprio l’opposto: che tutti abbiamo conoscenze parziali e situate, e che il valore aggiunto risiede nel dialogo tra prospettive diverse, non nella loro organizzazione para-gerarchica. Ma nessuno l’ha letta davvero. La usano solo per darsi autorità online.
⪢ Hai scritto anche che le élite anti-woke si comportano in modo simmetrico ai loro nemici dichiarati. Ma molti rispondono dicendo che questa simmetria di metodo (o quantomeno di comunicazione) è invalidata dal fatto che Trump si è messo a prendere di mira i diritti fondamentali. Per qualcuno in realtà c’è sempre stata una sola parte da criticare fin dall’inizio. L’ho letto anche rivolto a me medesimo: “Parlavi di cancel culture, ora abbiamo Trump!”.
Entrambe le parti sono ossessionate dai simboli. I trumpiani hanno rinominato il Monte Denali in Alaska in Monte McKinley, il golfo del Messico in golfo d’America, e così via. Non vogliono riformare le istituzioni, non vogliono cambiamenti sostanziali: vogliono distruggere tutto. Sono impegnati in una guerra simbolica, non in una riforma reale.
Il problema, però, è che se vogliamo capire come Trump è arrivato dove è oggi, dobbiamo guardare alle trasformazioni della base elettorale. Una volta il Partito Repubblicano era dominato da gente come Mitt Romney o John McCain.
Perché non è più così? Beh, in parte è perché le persone istruite e benestanti che una volta si dividevano tra i due partiti ora si sono concentrate nel Partito Democratico. Di conseguenza l’altro partito è pieno di persone che, non a torto, sentono di non avere voce nelle istituzioni. Sentono che le istituzioni non li rappresentano. E hanno ragione.
Non è propaganda di destra, è un fatto: i media sono concentrati in poche aree, controllate da economie simboliche. Le persone che vivono nel cosiddetto flyover country (gli Stati dell’entroterra, ndD) non producono informazione; quando hanno accesso ai media, sono quelli dei grandi conglomerati. Non sono veramente in grado di partecipare alla conversazione.
I giornalisti sono sempre più benestanti, sempre più istruiti. Il 95% ha una laurea. Al New York Times ci sono più persone provenienti dall’Ivy League che alla Camera o tra i Ceo delle aziende della Fortune 500: sono spazi super-elitari. C’è un grande articolo di Bertrand Cooper intitolato “Chi crea davvero la cultura nera?”. Dice che dopo la morte di George Floyd HBO, il New York Times... tutti volevano parlare di lui. Ma in un mondo ipotetico dove George Floyd non fosse morto, e avesse invece voluto scrivere per il New York Times... avrebbe potuto farlo? Ovviamente no. Non aveva una laurea. E al New York Times, in genere, non interessa cosa pensano le persone della sua estrazione. Le sue prospettive sono completamente escluse.
Non si parla solo di bianchi poveri: si tratta anche di afroamericani, ispanici, musulmani, operai. Tutti si sentono alienati. Ed è per questo che sempre più individui facenti parte di queste categorie votano per i Repubblicani. Perché se provano questo sentimento, di norma ricevono due risposte:
1) “Non c’è nulla da vedere qui, le cose vanno bene così. E se non sei d’accordo, sotto sotto sei ignorante o razzista”.
2) “Hai ragione, queste istituzioni non ti rispettano e non ti rappresentano. Non cambieranno mai. Serve qualcuno come me che le distrugga”.
Beh, sceglieranno sempre la seconda opzione. La prima, quella del “non c’è problema”, conferma che gli altri non solo non vogliono occuparsi della questione, ma non ne riconoscono nemmeno l'esistenza. È una risposta terribile. Quello che hai descritto è proprio un caso da manuale di “non c’è niente da vedere”, ed è proprio ciò che rafforza Trump.
⪢ Dunque il problema non sono quelli che hanno sottoposto a critica la galassia di fenomeni noti (soprattutto a destra) come cancel culture, mentre intanto – come hanno sostenuto alcuni articoli, più e meno incentrati sulla ripicca, nei primi giorni del Trump-bis – i reazionari preparavano la loro riscossa?
Ancora una volta: queste persone sostengono precisamente l’opposto di quel che è successo. Il vero problema non è che qualcuno mostrava di aver riconosciuto questi attriti e cercava di affrontarli; il problema è che quelle persone sono state ignorate per quindici anni.
E quindi nulla è cambiato. Anzi, molte cose sono peggiorate; e ora ampie fasce della popolazione pensano che quelle istituzioni non possano essere riformate, e che servano personaggi come Trump per redimerle. Quindi no: la colpa, a mio modo di vedere non è di chi ha cercato di affrontare questi problemi: è di chi non lo ha fatto.
⪢ Se l’attivismo moderno è così legato alla cooptazione di cause per interesse, esiste ancora una forma di attivismo “vero”?
Sì, ma è raro. C’è un libro di Hahrie Han, Prisms of the People, che analizza cosa rende efficaci certi movimenti. Serve ascoltare davvero le persone che si vuole aiutare; serve lasciare che siano loro a guidare l’agenda; e serve agire nel concreto, non cercare di cambiare il mondo in astratto. Vuoi aiutare i neri? Aiuta i neri della tua città che hanno problemi reali, non “combattere il razzismo” in astratto.
Serve anche ricostruire la fiducia nella capacità di persuadere chi non la pensa come noi. Oggi gli attivisti si organizzano nei campus per protestare nei campus, con l’obiettivo precipuo di ottenere comunicati dai rettori. Può anche essere utile, ma è anzitutto narcisismo. Perché anche quando i manifestanti ottengono qualcosa, è qualcosa che non serve a nessuno fuori da quel microcosmo.
⪢ Verso la fine del saggio, scrivi che il prossimo “risveglio” sarà generato da una nuova competizione tra élite simboliche per accedere ai pochi posti disponibili nelle istituzioni. Si tratterà di un Awokening simile ai precedenti?
Sì, ma con qualche differenza. Le élite simboliche sono molto più numerose oggi che negli anni ‘20, per dire. All’epoca erano il 3% della forza lavoro, oggi un terzo. E si concentrano tutte in poche istituzioni interconnesse. Questo rende le crisi più destabilizzanti. Inoltre, sono sempre più composte da donne. E uomini e donne tendono ad avere modalità di lotta diverse per il potere e il prestigio. Questo influenzerà la forma del prossimo Awokening.
⪢ Riguardo ai social media: io stesso nel mio libro ho attribuito loro un ruolo centrale in questo tipo di fenomeni. Tu sembri assai più cauto. Come la vedi?
Credo che i social non abbiano causato l’Awokening. Le condizioni strutturali (disagio diffuso e sovrapproduzione di élite) c’erano anche nei precedenti “risvegli”. Ma i social hanno plasmato la forma dell’attuale: siamo in un Panopticon digitale, ci sorvegliamo a vicenda, possiamo mettere alla berlina chi sbaglia in tempo reale. Questo ha dato alla fase attuale un sapore nuovo, più isterico, più veloce.
⪢ Hai scritto che le élite riescono sempre a mantenere intatto il sistema durante questi momenti di crisi. È perché la selezione delle élite è integrata nel capitalismo?
Esatto. I titoli universitari sono la valuta delle élite. Ma chi arriva a ottenere questi titoli tende a essere più conformista, più ossessionato dal prestigio, più ideologico. E così i nuovi arrivati si trasformano rapidamente da rivoluzionari a difensori dello status quo. Lo vediamo ogni volta.
⪢ Ultima domanda. Molti descrivono il pensiero woke come una nuova religione. Tu spieghi perché questa analogia è sbagliata. Perché?
L’analogia ha un fondo interessante: le professioni simboliche sono nate in ambienti protestanti bianchi. E molte idee woke discendono dal “Vangelo sociale” protestante. Ma spesso chi propone l’analogia lo fa solo a fini denigratori: la religione è una cosa irrazionale, quindi lo è anche il wokismo.
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