Los Angeles è un luogo che ha la resistenza nel suo dna. Lo raccontano le immagini degli ultimi giorni, quelle delle proteste anti-ICE che hanno attraversato il cuore della città, riflettendosi nelle vetrate lucide degli edifici di Downtown, scorrendo lungo i murales caleidoscopici delle avenue latinoamericane, e riecheggiando negli spazi immensi e desoliti, che sembrano fatti apposta per ospitare conflitti e speranze.
L.A., la megalopoli sterminata per antonomasia, è fatta di molte città dentro una sola, e anche per questo ha sempre dato del tu alla forma democratica e spontanea della protesta. È difficile spiegare un luogo con un’anima sempre in perenne oscillazione tra sogno e disperazione, con una produzione immaginifica che va dalla polvere dei carovanieri di John Fante ai ricchi rampolli nichilisti di Bret Easton Ellis, perché è solo andandoci che ci si rende conto della sua ontologia di frontiera.
C’è un anno che lo ricorda più degli altri: il 1992, quello dei riots scatenati dall'assoluzione degli agenti coinvolti nel pestaggio di Rodney King, una cesura come poche ce ne sono state nella storia recente americana; un punto di rottura che fratturò con un colpo secco decenni di tensione profonda tra le comunità marginalizzate e il potere.
Questo post è un’esclusiva per gli abbonati a Culture Wars
Abbonati per leggere questo articolo e tutti gli altri contenuti premium.
Hai già un abbonamento attivo? Login