Lo scorso 9 luglio il Monk, uno spazio eventi sito nel quartiere Tiburtino di Roma, avrebbe dovuto ospitare un panel dal titolo “Dis-Pari: conversazioni sull’antisessismo”, organizzato dalla divulgatrice anti-femminista Yasmina Pani, dall’artista Immanuel Casto e dal pianista Leonardo Laviola. Con loro avrebbero dovuto intervenire lo psicoterapeuta Giancarlo Dimaggio, la storica ed editrice Giorgia Antonelli, il men’s rights activist Fabio Nestola e l’insegnante di filosofia Tiziana Lombardi.
L’evento – definito dagli organizzatori «aperto a tutti, a chiunque abbia voglia di dialogare e confrontarsi civilmente e rispettosamente» – è però stato cancellato all’improvviso dal locale, a pochi giorni dal suo previsto svolgimento (e si è tenuto poi nella sede romana dei Radicali).
Il motivo del cambio di rotta ex abrupto, ha scritto lo stesso locale romano in alcune Stories pubblicate sul suo profilo Instagram, è non aver «approfondito i profili degli attori coinvolti nel dibattito»: «a seguito delle vostre segnalazioni», continuava il Monk, «abbiamo deciso di annullare l’incontro [...] affinché questo resti uno spazio di accoglienza, gentile e non violento».

Monk Roma, un luogo che ospita anche una programmazione di eventi che orbitano attorno all’inclusione e alla lotta alla discriminazione, si è scusato se l’iniziativa «ha potuto turbare chi finora si è sentitə al sicuro» nei suoi spazi.
Ma il vaso di Pandora non era certo destinato a richiudersi nello spazio di un post a scomparsa: in breve sono arrivate le accuse di censura, a cominciare da quelle degli organizzatori dell’evento, gli articoli di giornale indignati e le cosiddette shitstorm, tali da portare il Monk ad annunciare che gli piacerebbe molto... «ospitare un incontro in cui sia rappresentata la più ampia pluralità di posizioni possibile».
Insomma, è scoppiato il solito riconoscibile bubbone di un deplatforming ingenuo e farraginoso, che ha portato fisiologicamente alla creazione di due schieramenti, entrambi persuasi di avere ragione: i sostenitori del dibattito Vs. i sostenitori del safe space.
Di seguito provo a condividere alcune riflessioni che ho fatto leggendo comunicazioni, articoli, commenti, discussioni e interventi relativi a questa storia nelle ultime ore: forse non costituiscono un centro di gravità permanente da cui guardare all’accaduto con certezze granitiche e inscalfibili, e probabilmente alcune di esse, fino a qualche tempo fa, non mi sarebbero appartenute. Oggi, però, sono quel che ho da dire sulla faccenda.
Non sapere chi è stato invitato a tenere un evento nel tuo spazio sui tuoi temi è peggio che imbarazzante.
È una premessa, ma fin qui direi che siamo nel campo del “non ci piove”: il Monk avrà anche un «posizionamento molto chiaro» sulle questioni di genere, ma in questa storia i suoi gestori hanno fatto la figura dei proverbiali venditori di pere cotte. Dire che i partecipanti a “Dis–Pari” non erano «soggetti noti» vale ammettere candidamente di non aver fatto nemmeno la quota minima dei propri compiti a casa, lasciando il palco e i microfoni di un locale aperto al pubblico a persone che, a questo punto, avrebbero potuto essere il primo che capita, Vladimir Putin, Darth Vader o Filippo Turetta. Bel lavoro, davvero.

Il dialogo è una componente essenziale, ma non bisogna rendere il dibattito un feticcio.
Sono il primo a sostenere che uno dei problemi di buona parte del progressismo odierno è trincerarsi in torri d’avorio – talvolta chiamandole safe spaces – e rendersi immuni a qualunque diversità di vedute, con risultati sotto gli occhi di tutti. Ho quindi accolto con favore l’intervento di Loredana Lipperini e Vera Gheno su quanto successo a Roma: «Non possiamo perdere la capacità di stare scomode», scrivono le due autrici; «aver paura delle parole significa non saper confliggere: e il conflitto, se siamo in grado di reggere il confronto, è importante proprio in questi tempi».
È vero: all’estremo opposto di questo immaginario continuum siedono soloni improvvisati che, dopo anni a bloccare sui social chiunque dissentisse su una frazione infinitesimale delle loro idee o il loro modo di esprimerle, oggi specchiano il proprio ego nelle lodi sperticate di quelle poche decine di persone che hanno ancora fra i contatti. Questo, nel concreto, significa lasciare il campo della persuasione a chi è meno innamorato della propria immagine riflessa e più interessato a far passare un messaggio; significa indebolire le proprie idee, insomma, renderle profezie che si autoavverano, buone soltanto per uditori con nessun interesse ad ascoltare.
Aggiungo però un tassello, non necessariamente legato a questa singola vicenda: se è vero che quest’epoca ci sta insegnando a rimuovere a priori la possibilità di convincere chi ha opinioni diverse, è vero anche che si tratta di un’epoca in cui tante persone fingono di voler dibattere, per poi in realtà adoperarsi in un teatrino che di dialettico non ha nulla. Il dibattito, come formato maieutico, ha bisogno di una prassi comunemente accettata: il rispetto dell’interlocutore, l’aderenza a un piano di realtà condivisa, la volontà di non scadere in sberleffi o argomenti ad hominem. Se dovessimo applicare questa unità di misura oggi tre quarti dei dibattiti non potrebbero essere definiti tali, ma il punto è proprio questo: dibattere con chiunque non è un dovere intellettuale perché certi confronti, invece di sostenerlo, annacquano il conflitto, impoverendone i contenuti. Non ci si può confrontare con un trumpiano che sostiene che in Ohio i migranti stiano facendo grigliate di cani e gatti, per esempio, né invitare un negazionista climatico a un festival dell’ambiente e chiedergli se il climate change esiste o è una leggenda.
Il caso del Monk è più complesso di così, certo: all’evento erano stati invitati un’editrice femminista fresca di pubblicazione di una biografia di Rossana Rossanda, un artista afferente al mondo Lgbt+, uno psicoterapeuta esperto di violenza di genere, una divulgatrice linguista e un attivista per i men’s rights, che collabora con un sito il cui manifesto contiene cose come quelle che seguono:
Il femminismo, asserendo falsamente di lottare per la parità tra uomo e donna contro un asserito “regime patriarcale”, in realtà conduce una guerra di annientamento della figura dell’uomo e del padre, con lo scopo di acquisire privilegi, primazie e vantaggi per una minoranza ideologizzata che si autodefinisce rappresentante di un’intera comunità connotata dal genere. Nel ritenere apertamente la metà maschile del mondo un nemico da combattere, il femminismo è il maggiore portatore di squilibrio e il maggiore ostacolo alla realizzazione di una piena e armonica parità tra uomini e donne.
Si tratta di posizioni diffuse nella popolazione allargata, e come tali meritevoli di discussione (e possibilmente confutazione, direi io); tuttavia sullo stesso sito linkato qui sopra la volontà discorsiva – tra frecciate al «piagnisteo in rosa» e titoli come «Se è stupro o no in Italia lo decide la presunta vittima» – non sembra, a prima vista, risultare fra le priorità degli autori.
Non so come sia andato l’evento: è possibile – lo dico senza sottotesti di alcun tipo – che si sia rivelato uno spazio di confronto proficuo e capace di dare profondità a certi discorsi, persuadendo il pubblico della ragionevolezza di questa o quella posizione. La possibilità di far cambiare idea, come sostenevo già nella Correzione del mondo due anni fa, è una vittima illustre della deriva di camere dell’eco e polarizzazioni indotte (l’attuale non è un mondo per Daryl Davis, il musicista blues afroamericano che ha convinto 200 incappucciati del KKK a pentirsi solamente parlandoci nei bar, diciamo). Ma la pratica di sottrarsi a confronti pubblici giudicati, a torto o a ragione, sterili è lontana da un’invariabile «censura fascista», quella che viene dipinta dalle iperboli comunicative come la notte in cui tutti i mancati confronti sono neri. Il problema, semmai, è che...

Anche per sottrarsi a un dibattito ci vogliono responsabilità e consapevolezza.
Il disastro del Monk, per me, non è dato soltanto dall’atto dell’annullamento dell’evento in sé, quanto soprattutto da un insieme di fattori che dimostrano una grave ignoranza del terreno su cui ci si muove: come pensava, il Monk, che venissero accolte le storie Instagram con lo schwa (poi divenute rapidamente post di scuse senza schwa: per dire il coraggio delle proprie idee) per annunciare, con poche ore di preavviso, che un evento programmato sarebbe saltato in quanto potenzialmente capace di «turbare chi finora si è sentitə al sicuro»?
In questa grammatica sembra di rivedere, per quanto su una parte diversa del piano inclinato, gli errori, gli assist a porta vuota e l’ottusità di parte della sinistra statunitense: i richiami allo «spazio sicuro» che nascondono una ben più pragmatica e pedestre volontà di non alienare il proprio pubblico; la mancanza di riferimenti e coordinate per capire cosa è stato segnalato, da chi, e perché viene assimilato alla violenza; la beata ingenuità che considera tutto risolvibile con una storia Instagram e un «restiamo sempre in vostro ascolto», come se al di là della boa non fossero appostate schiere di pescecani in paziente attesa di un sentore di sangue.
Non è colpa del locale romano se in questi anni impazziti di “cancel culture”, censure incrociate e scomuniche facili ogni fatto minuto diventa accostabile ai massimi sistemi: chi si occupa di eventi culturali nella capitale d’Italia però ha l’obbligo di sapere che le cose stanno così, e che nel momento in cui togli il microfono in quella maniera a idee che non vuoi amplificare, le stai amplificando dieci o cento volte tanto; stai creando il caso; stai passando, e non del tutto a torto, per il censore che applica in modo pavido e ipocrita l’ideologia dominante, sperando di spazzare sotto il tappeto la polvere della propria insipienza.

E alla fine vincono quegli altri.
Non vorrei cadere a mia volta nel tranello di fare di questo caso una questione di Stato (beh, forse avrei dovuto evitare di parlarne, ma per quello è troppo tardi), però è vero che in sé contiene tutti gli ingredienti di un copione che si ripete pedissequamente da anni, fatto per innalzare barricate a buon mercato e, come tale, fin troppo diffuso.
Il dibattito in valore assoluto è un mito (non dissimile dalla “libertà di espressione” totale propagandata da Elon Musk nella sua Opa ostile a Twitter, che si è tradotta semplicemente – e prevedibilmente – in scelte di moderazione differenti su X), il dialogo è diventato un salmodiare di preti laici, i corpi intermedi procedono a tentoni, ossessionati da possibili critiche del loro pubblico... ma perché, alla fine, queste cose fanno più rumore quando succedono a sinistra?
Perché, insomma, una famiglia politica che va dagli anarco-liberisti ai post-fascisti è capace di fare quadrato, inversioni a U e cambi di casacca e mantenere una coerenza interna, mentre tra liberali e sinistra ogni pioggia scava un solco che appare incolmabile?
Al di là delle spiegazioni offerte dalla politologia classica, su cui non voglio dilungarmi in questa sede, mi sembra importante sottolineare che i luoghi di produzione culturale sono, non da oggi, appannaggio della “sinistra”, comunque la si voglia intendere. Questo crea da una parte, in potenza, praterie da sfruttare per l’editoria, gli eventi culturali e i media di “destra” – che devono però mettere in conto un ruolo di paria anti-mainstream attorno a cui ricalibrare la propria immagine – e dall’altra una competizione serrata per mantenere il proprio posto al sole in un eccesso di offerta.
Non ho ragioni per asserire che il Monk di Roma sposi certe cause per puro posizionamento e dovere di mercato o di scuderia, non avendoci mai messo piede, ma dalle sue giravolte appare chiaro, si diceva, che la prima preoccupazione che lo anima è non essere criticato dalle persone che lo frequentano, anche a costo di fare la figura del passante a cui è stato venduto un pacco di sale.
Alla prossima vittoria di un populista reazionario che si presenta alle elezioni predicando in modo strumentale un ritorno al buonsenso, alle cose semplici e comprensibili di una volta e alla libertà di opinione come stella polare, sarà meglio evitare passerelle dispettose per rimarcare che la sinistra delle bolle non poteva farci nulla, e che i suoi appartenenti sono da considerare dispensati dalla tentata dialettica politica, dalle insidie dei dibattiti e dagli effetti che tutto ciò ha sulla società allargata, dato che, bontà loro, hanno ragione (o così credono, storditi da quei quattro che gli mettono sempre like): vicende come quella del Monk dimostrano che per fare di uno «spazio di accoglienza e libertà» una fonte di esclusione e gioghi deformati dagli algoritmi basta poco. E bisogna starci attenti.
EDIT: Una versione precedente di questo articolo attribuiva direttamente a un partecipante all’evento, Fabio Nestola, il “Manifesto” del sito La Fionda. Un errore che ringrazio il lettore Tommaso P. di aver corretto.
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