È iniziato il Salone del Libro di Torino, dunque provo a rovinare la festa a tutti con due righe di riflessione su un tema che – col passare degli anni e certi timidi progressi in altri campi – mi pare rimasto sostanzialmente tabù e al di fuori del perimetro di ogni dibattito: il divario di appartenenza di classe nelle professioni intellettuali (o variamente autoriali/creative).
È un tema a cui dedicherei volentieri articoli, approfondimenti, saggi e pamphlet, ma che temo verrebbero frenati sul nascere da certe fisiologiche resistenze interne (il che, a ben vedere, sarebbe parte del problema).
Il famigerato elefante nella stanza è la nuda evidenza del fatto che, in mestieri che spesso non garantiscono ricavi con cui sbarcare il lunario, a “vincere” sono persone che possono mantenersi in altro modo: i ricchi di famiglia, insomma. Di questo argomento qualcuno (anche se non tanti, beninteso) ha parlato, nel tempo, è vero; però mi pare che quasi nessuno, almeno a sinistra, abbia riflettuto in modo serio e misurato su come questo dato si interseca con codificazione, popolarità ed efficacia delle cause progressiste.
E invece prima o poi bisognerebbe iniziare a discutere di come slogan, espressioni e inquadramenti d’élite distantissimi dalle persone a cui – in teoria – si rivolgono sono la prima freccia nella faretra del populismo di destra, tutto chiacchiere e distintivo “anti-woke”.
Avendo lavorato in tanti posti, conosciuto tante persone e sentito tante storie, posso testimoniare che, specie in una città per certi versi piccola e uniformata come Milano, negli spazi di elaborazione intellettuale più à la page da una parte ho visto professare editorialismo sull’essere buoni (oggi forse si direbbe “inclusivi”, ma è uguale), mentre dall’altra si esercitava un classismo quotidiano, spietato, instancabile, diretto a chi non rientrava in un certo canone di consumi, culturali e non, appannaggio dell’alta borghesia.
Declinando il discorso in prima persona: io stesso, figlio del ceto medio-basso di una cittadina di provincia e cresciuto in un quartiere di case popolari, ho pagato in termini di rapporti lavorativi e personali il mio non potermi permettere certe cose – il non poter essere “buono” come lo è il figlio di un avvocato o di un medico, insomma.
Vorrei qui premettere che essere benestanti o direttamente ricchi non è una colpa da espiare, e che conosco tante ottime persone che vengono da famiglie agiate e sono sinceramente sensibili ai diritti di chi agiato non è; a livello sistemico, tuttavia, conosco benissimo anche i limiti angusti della benevolenza di quelli per cui il linguaggio inclusivo, la vicinanza simbolica e la spilla della “parte giusta” sono vezzi cool e strumenti di potere.
Ed è proprio per questo che non mi sorprende vedere che l’appropriazione borghese del progressismo (ma non bastavano i mezzi di produzione?) l’abbia fatto naufragare, contribuendo in modo parziale ma decisivo a spianare la strada ai reazionari.
Di tutte le persone nere, afroitaliane, musulmane, transgender e disabili che ho conosciuto nel contesto in cui ho passato i primi anni della mia vita – e non sono pochissime – quelle che si riconoscono nel linguaggio delle nicchie di un certo attivismo a mezzo Instagram si contano sulle dita di una mano (la proporzione, sintomaticamente, cambia fra le persone conosciute in tempi più recenti, per lavoro).
Il punto è che la maggior parte degli appartenenti a categorie storicamente marginalizzate ha sempre subìto le azioni di coloro che hanno i mezzi, le risorse, il tempo, il modo di intestarsi battaglie in conto terzi sul piano simbolico («I poveri almeno ti ordinano cosa fare / I ricchi invece, loro usano il plurale / Prendiamo, spostiamo ed alziamo e dopo restano a guardare», se posso concedermi una citazione “alta” di un Marracash d’antan).
Nel 1918 il socialista e sindacalista americano Gene Debs tenne un lungo e memorabile discorso contro la guerra ai compagni di Canton, in Ohio, dicendo tra l’altro: «Questa è la guerra, in poche parole: la classe dominante l’ha sempre dichiarata; la classe sottomessa le ha sempre combattute». Beh, il principio vale anche per le cosiddette guerre culturali.
Ai figli dei notabili non si chiede di camminare sui ceci e non li si accusa a prescindere, ma le loro mani sui meccanismi di elaborazione e produzione della cultura dovrebbero essere un dato di cui discutere in modo onesto. Se a ventott’anni avevi già un tri o quadrilocale di proprietà a Milano, magari in una zona centrale, e non hai mai dovuto porti la domanda «come le pago le spese del mese prossimo?» puoi essere anche bianco o cisgender, ma ti assicuro che il tuo vero privilegio è anzitutto altrove.
È bene tenere a mente che i casi di cui si occupa questa newsletter sono passati al setaccio con lo spirito di chi li considera prima di tutto armi di distrazione di massa: in un mondo ideale, capire che spesso dietro ai discorsi virali intorno ai massimi sistemi ci sono lotte per il potere e gatekeeping di classe è il primo passo per tramutare le culture wars in class wars – di cui si può pensare quel che si vuole, ma che di certo hanno il pregio di identificare il nocciolo del problema.
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