I geni di Sydney


Come si nota spesso in questa newsletter, le faglie di divisione di questa peculiare epoca storica si sono moltiplicate in modo esponenziale: ciò che fino a pochi anni fa era neutro, comune, usuale, oggi si carica di significati politici evidenti o reconditi, generando un’infinità di polemiche in cui ci troviamo a rimestare per giorni o settimane.

L’ultimo esempio che viene dal Paese al di là dell’oceano Atlantico riguarda una nota celebrity, Sydney Sweeney, e la sua ultima campagna pubblicitaria per uno storico marchio di abbigliamento, American Eagle Outfitters. Eccola:

Il primo spot della campagna è quello che ha causato l’ondata primigenia di biasimo e indignazione rituale: giocando sull’omofonia delle parole genes (geni del Dna) e jeans, l’attrice spiega con voce suadente che «i genes sono trasmessi dai genitori alla prole, spesso determinando caratteri come il colore dei capelli, la personalità e anche il colore degli occhi. I miei jeans sono blu».

Puoi iniziare ad immaginare cosa abbia scatenato il finimondo (ma ci arriviamo fra un attimo). Prima è bene sottolineare che American Eagle, un marchio dalla brand identity – scusa, giuro che non lo scrivo più – assai tradizionalista fin dal nome, da questa campagna ha tratto un cospicuo rimbalzo in Borsa, e dunque molti soldi.

Poi c’è Sydney Sweeney, che oltre che un indiscusso sex symbol di questi tempi è anche una star, in qualche modo, anacronistica. Viene dalle montagne del West americano, ha una passione per le automobili; deve la sua fama a un ruolo nella serie tv Euphoria, ma ha una personalità e una presenza pubblica diverse da quella delle colleghe: non si avventura pressoché mai a parlare di politica, che si tratti di proclami attivistici o di prese di posizione su temi di attualità (e anche per questo motivo, come talvolta accade, è apprezzata dai Repubblicani) e fonda il suo fascino su una femminilità lolitesca e autocompiaciuta, da diva acqua e sapone dell’America del Boom. Qualche commentatore l’ha definita «l’anti-Kardashian».

Con questi ingredienti di base, la frittata non poteva che avere il riconoscibile retrogusto speziato delle guerre culturali: se a destra la pubblicità quasi di sapore reaganiano ha fatto urlare ancora una volta alla fine della wokeness, invocata e celebrata come un ritorno alla bella America di una volta, a sinistra ha generato accuse di... nazismo. Spesso anche assai virali.

Davvero il perfect storm, se ci pensi: nel pieno del più clamoroso, sguaiato e criminale ritorno del trumpismo, un brand di abbigliamento anni Ottanta da tempo in declino scrittura una bionda prosperosa per una pubblicità che parla di geni. E la fa salire su una Mustang del 1965. Boom.

Se, da una parte, è comprensibile sentir bussare l’imbarazzo di fronte alle reazioni più scomposte generate dalla vicenda – il sito dell’emittente Msnbc ha ospitato l’editoriale questionabile di una (bianchissima) producer secondo cui lo spot segnala uno «shift culturale senza freni verso la whiteness» – dall’altra è pur vero che tutto questo è, in maniera evidente, il risultato di una strategia consapevole.

In altre parole: ovviamente American Eagle, quali che siano i suoi valori e il suo posizionamento, non intende rifondare il Terzo Reich. Ma chi potrebbe mai sostenere in buona fede che, puntando sui geni della sensualissima Sydney Sweeney, non abbia cercato di tornare rilevante appigliandosi alla polarizzazione a buon mercato indotta dall’esposizione alla viralità?

Questo non significa che gli pseudo-attivisti improvvisati su TikTok abbiano ragione da vendere, però pare necessario ammettere che lo spot gioca volutamente su un crinale simbolico conflittuale, proponendo un modello (anzi, una modella) che sa, a tutti gli effetti, di ritorno all’immaginario di un’altra epoca.

È tutto legittimo: fa parte della strategia comunicativa di un marchio che vuole rilanciarsi e, nel contempo, trasmettere certi valori magari meno “in trend” di altri negli ultimi anni, ma non per questo scomparsi. Però che da questa scelta siano derivate polemiche – anche nelle loro incarnazioni socialmediali più ridicole – non è un effetto collaterale, bensì parte di un calcolo di economia dell’attenzione.

Non so se quella che la stampa di destra chiama woke mob esiste davvero: è più probabile che là fuori ci siano tante persone molto giovani, molto impressionabili, molto manipolate, con tanto tempo a disposizione o psicologie molto fragili che pensano che uno spot di trenta secondi visto online possa diventare una questione di Stato di cui occuparsi per giorni interi.

La reductio ad Hitlerum è una realtà assodata nel so-called attivismo su TikTok di marca statunitense: in ossequio alla polarizzazione indotta dagli algoritmi, se qualcosa ha un sapore vagamente conservatore, allora è certamente Nazi (va detto che personalmente su X ho trovato un rapporto di 20 post a uno tra chi ridicolizza la “suscettibilità woke” ed esempi concreti della suddetta, anche se è verosimile che su Bluesky la situazione sia diversa). Ma il problema maggiore è che questo circo ha l’unico fine di alimentare se stesso, sacrificando la comunicabilità sull’altare dell’engagement globale a ogni costo.

Come ha scritto sull’Atlantic il commentatore Charlie Warzel:

Sebbene la controversia su Sweeney sia prevedibile, dimostra anche come Internet abbia completamente sconvolto il discorso politico e culturale. Persino il termine discorso – in riferimento al modo in cui un particolare argomento viene messo nel tritacarne di Internet – è improprio, perché nessuno dei partecipanti sta realmente parlando con gli altri. Piuttosto, ogni partecipante [...] rilascia dichiarazioni, non diversamente dai personaggi pubblici. Ognuna di queste dichiarazioni diventa materiale per le dichiarazioni di qualcun altro. Le persone non si parlano sopra, ma è chiaro che nessuno ascolta gli altri.

Un altro prerequisito essenziale per il successo di questi scontri, ça va sans dire, è non avere idea di cosa siano stati per davvero il nazismo, l’eugenetica e anche gli Stati Uniti in cui è cresciuta la generazione X. E il risultato di questo nonsense non può che avvantaggiare i Donald Trump del caso: ecco perché la Casa Bianca si è sentita in dovere di intervenire sulla pressante questione, spiegando che le reazioni della sinistra online alla campagna di American Eagle sono un «grande motivo» per cui il presidente ha vinto alle elezioni del 2024.

Forse però la palma d’oro del miglior intervento sghembo di questa disputa estiva in jeans va a quei conservatori e reazionari che sono riusciti a spostare il punto del discorso su... quanto Sydney Sweeney sia effettivamente bella. Qualche luminare para-incel ha sostenuto che l’attrice non superi il 6 nel suo sistema valutativo: ma la sufficienza, nei casi di intemperie algoritmiche come questo, appare lontanissima per tutti.

Altre news dal fronte

  • Il voto dei giovani (soprattutto maschi) per Trump è stato un evento eccezionale, che verosimilmente non si ripeterà?
  • Perché leggere è diventato difficile: David Foster Wallace l’aveva detto chiaro e tondo già nel 2003;
🫰
Se non vuoi o puoi abbonarti, supporta la newsletter con un piccolo o piccolissimo contributo una tantum: fa la differenza, credimi.
Evviva! Hai completato l’iscrizione a Culture Wars. La newsletter
Daje! Ora dai un’occhiata e considera di passare alla versione premium.
Errore! Iscrizione impossibile a causa di un link non valido.
Bentornato/a! Login effettuato.
Errore! Login non andato a buon fine. Per favore, riprova.
Evvai! Ora il tuo account è attivo, hai accesso a tutti i contenuti.
Errore col checkout via Stripe.
Bene! Le tue info di fatturazione sono state aggiornate.
Errore! Le tue info di fatturazione non sono state aggiornate.