Il pomeriggio dell’11 marzo, sul prato sud della Casa Bianca, un passeggero speciale si è infilato in una nuova e fiammante Tesla Model S, mentre il suo fido braccio destro, comodamente seduto accanto a lui, spiegava ai cronisti accorsi sul posto che «il presidente merita la miglior tecnologia americana».
I due si chiamavano – e si chiamano ancora – rispettivamente Donald Trump ed Elon Musk, e la loro tempestosa bromance è diventata l’ago della bilancia degli Stati Uniti.
La scenetta in favor di obiettivo di marzo – un capo di Stato seduto accanto al tycoon che più di ogni altro ha sostenuto la sua vincente campagna elettorale presidenziale – sanciva l’apice simbolico di una luna di miele entrata nel vivo l’anno precedente, quando Musk aveva investito quasi trecento milioni di dollari in super PAC Repubblicani e aveva rimodulato l’algoritmo di X per amplificare voci pro-MAGA e mettere il silenziatore ai profili di sinistra.
Il sostegno di Musk non è mai stato solo pecuniario: durante l’autunno 2024 Musk aveva accompagnato Trump in comizi salterini rimasti a modo loro iconici, trasmesso molti altri appuntamenti di Trumplandia in diretta su X, e soprattutto fornito un’infrastruttura digitale (ovvero dati, reach e trending topic) a cui nessun partito tradizionale avrebbe mai potuto ambire. Franklin Foer, sull’Atlantic, aveva definito Musk «un Deep State privato», e aveva ragione: nessuno come lui è un provider di potere capace di unire le infrastrutture strategiche (quelle di Starlink e SpaceX) e i canali di comunicazione di massa.
Non a caso, il giorno dell’insediamento Trump ha ricompensato il suo strambo mecenate col Department of Government Efficiency, alias DOGE, rendendolo un “amministratore straordinario” extra moenia con accesso ai dati del governo federale. Un banco di prova in grande stile per l’idea muskiana di snellire lo Stato a colpi di codice, ma soprattutto uno scambio di favori di cui ha fatto le spese lo stato di diritto: in meno di cento giorni i tecnici arruolati da Musk – spesso senza alcuna esperienza o ruolo pubblico precedente – hanno messo le mani su fondi sanitari, fiscali e previdenziali, licenziato migliaia di funzionari e rivendicato risparmi miliardari, generando disastri a non finire e di fatto privatizzando il potere esecutivo.
Poi però è arrivato il conto. Col cosiddetto “One Big Beautiful Bill” (sic), maxi-manovra di Trump che, tra le altre cose, taglia gli incentivi ai veicoli elettrici, ed è passata in questi giorni al Congresso, Trump ha colpito proprio l’industria più cara a Musk.
Il fondatore di Tesla si è scagliato contro la legge, definendola su X «un abominio», ha minacciato di boicottare i deputati Repubblicani che l’avessero votata. Poi, facendo seguito a mesi di retroscena di maretta a palazzo, ha lasciato la guida del DOGE. Il presidente ha reagito mettendo in dubbio l’affidabilità dei modelli Tesla e ventilando l’ipotesi di sciogliere i contratti federali tra NASA e SpaceX (nonché precisando che «nessuno» tranne l’ex amico voleva misure pro-auto elettriche); Musk, dopo aver rincarato la dose sulla NASA, gli ha sobriamente dato del pedofilo; Wall Street ha punito il titolo Tesla e la frattura è diventata irreversibile e pirotecnica.
Time to drop the really big bomb:@realDonaldTrump is in the Epstein files. That is the real reason they have not been made public.
— Elon Musk (@elonmusk) June 5, 2025
Have a nice day, DJT!
La crisi dei due ex innamorati in camporella sulla Tesla – un botta e risposta incrociato e isterico tra Truth Social e X, con Musk che ricondivide meme su Epstein e Trump che minaccia indagini antitrust – è la cartina di tornasole del punto di non ritorno dell’oligarchia tech a Washington. Ezra Klein parla già da mesi di «competizione per la realtà percepita», dove piattaforme e potere politico si sfidano non sul piano legislativo, ma sul filtro mediatico attraverso cui i cittadini comprendono le leggi. Il Washington Post ha notato che Musk «scopre adesso ciò che ogni grande donatore prima o poi impara da sé: Trump non è un investimento, ma un rischio permanente».
La politica statunitense funziona con regole spietate, ma che fino ad oggi erano rimaste più o meno fisse: i politici si comprano coi milioni, ma poi ricambiano i favori. Musk forse pensava di aver acquistato un presidente, ma ha ricevuto un tizio che rivende se stesso al miglior offerente ogni ventiquattr’ore, e cambia idea tre o quattro volte al giorno.
Il risultato è che oggi, in uno stato di cose senza precedenti, un oligarca digitale altrettanto instabile dispone di database federali e di un canale social planetario da cui può modulare l’agenda pubblica (o, se serve, sabotarla in grande stile, appunto). Se Musk domani decidesse di “abbassare il volume” di un’istituzione critica, o di prendere di mira alcuni suoi appartenenti, chi potrebbe farci qualcosa?
Con una battuta fulminante, Alexandria Ocasio-Cortez ha commentato il redde rationem intra-Trump con un già epico «oh cavolo, le ragazze stanno litigando, vero?». È una boutade fino a un certo punto, però, nella misura in cui non solo le persone comuni, ma anche i ricchi e i potenti oggi rimangono invischiati nello stesso loop di reaction, meme e shitstorm che una volta inghiottiva forum di nicchia e cospirazionisti fuori di testa. L’algoritmo è diventato la forza primaria che riscrive gli archi costituzionali, e che influenza le già fragili (diciamo così) personalità al potere a Washington.
Ho controllato: nel mio piccolo avevo scritto già a febbraio che fra questi due non sarebbe potuta durare troppo. E non è che sia stato l’unico facile profeta in tal senso, intendiamoci. Ma la lite Musk-Trump non è solamente una questione di compatibilità fra due ego giganteschi; è una faida che tocca la permeabilità della democrazia Usa a capitali privati fatti di server, satelliti e dati sensibili di milioni di cittadini.
Se l’alleanza di convenienza fra un presidente uber-populista e il suo «first buddy» (così come si è autodefinito, in modo sempre imbarazzante) high-tech è crollata in poche settimane, il vuoto che lascia non è un divertissement di gossip, ma una falla aperta nello scafo della sicurezza istituzionale.
Finché un singolo proprietario di grandi aziende potrà riscrivere gli algoritmi che strutturano il dibattito pubblico – e non solo vantarsi di aver reso possibile una vittoria elettorale, ma anche chiederne il conto – ogni campagna si giocherà su un terreno che non appartiene più alla democrazia, ma al suo padrone di turno.
In un mondo che affida la propria opinione pubblica a chi controlla i feed e i discorsi che instradano nelle nostre giornate, la domanda non è se la democrazia sopravviverà a due ego ipertrofici in lotta: è se riuscirà a sopravvivere al modello di business che li ha armati.
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