Video di Karen e mondo di fuori


Inutile dilungarsi troppo sull’episodio da cui prende le mosse questo articolo, vista la sua notorietà smisurata: sabato 3 maggio alla Taverna a Santa Chiara, un ristorante molto frequentato del centro di Napoli, la ristoratrice Nives Monda ha avuto un alterco con due clienti israeliani, la ricercatrice Gili Moses e il compagno, che stavano parlando in termini positivi del loro Paese con altri turisti.

Secondo quanto dichiarato dalla stessa Moses, la situazione sarebbe degenerata quando la titolare della Taverna si è inserita nel discorso fra i commensali, interrompendo le lodi a Israele della coppia per dichiarare, a un certo punto, che «i sionisti non sono benvenuti a Napoli»; secondo Monda, invece, la responsabilità del diverbio sarebbe tutta di Moses, che si è inalberata dopo aver sentito che la proprietaria parlava di un «genocidio» ai danni dei palestinesi.

Di certo c’è solo una manciata di secondi finali, catturati in video dalla turista israeliana e postati sui social, che però ci dicono molto poco: c’è, effettivamente, Monda che, alterata, ripete che «i sionisti non sono i benvenuti» nel suo locale, mentre Moses, ugualmente su di giri, le urla che è una «supporter del terrorismo» e un’«antisemita».

Come vuole il copione di questi teatrini simbolici, ognuno crede a quel che vuole: chi ha iniziato? Chi ha detto cosa, al di fuori del registrato? Cosa è successo davvero, e cosa ci dice del mondo in cui viviamo?

Quel che ho provato timidamente a suggerire, tra una trasferta e l'altra di questi giorni, è che il problema è proprio nel carattere monopolizzante di questi MacGuffin virali: perché una singola esperienza diventa indicativa di un trend, spia di un Problema Sociale o spunto per vaticinare orrori ormai prossimi?

È questo che non capisco, anzitutto, nella retorica perennemente allarmata che si concentra su questo o quel caso distorto dagli algoritmi e reso uno spartiacque lungo cui schierarsi: dove sono gli altri turisti israeliani “cacciati” dai ristoranti, le taverne e le osterie d’Italia? Dove sono le altre vittime di questa interminabile ondata di antisemitismo (finora più che altro presunto, anche considerato che secondo una testimonianza Gili Moses pare aver avanzato le stesse accuse a una manifestazione per la pace a Bari)?

Beninteso, l’antisemitismo esiste, ed esiste da duemila anni: e se differenziarlo dall’antisionismo può risultare (e talvolta è, a tutti gli effetti) capzioso, ignorare l’attualità molto più stretta, pressante e documentata mi sembra anche più scorretto: oggi, e da un anno e mezzo, Israele è un Paese impegnato nella distruzione sistematica di un popolo straziato dalla guerra, a cui nega anche i beni umanitari di prima necessità e le cure mediche (quando non bombarda le navi che cercano di portarli a Gaza).

A Gaza sono morte 60mila persone – fra cui 15mila bambini – e ne muoiono di nuove ogni giorno; ci sono centomila feriti che non si possono curare perché gli ospedali sono diventati cumuli di cenere; non ci sono acqua da bere e cibo per consumare pasti una volta ogni giorno o due: notare che questo è lo scenario che merita un’attenzione sistemica non è benaltrismo in cattiva fede, ma semplice (oserei dire persino banale) comprensione dello scenario che abbiamo sotto gli occhi.

E non parlo di quegli occhi che posiamo sullo schermo dell’iPhone, indignandoci per l’ultimo fatterello laterale con cui le piattaforme cercano di accendere il fuoco sacro del nostro engagement emotivo; parlo di occhi con cui riusciamo ancora a percepire il mondo al di fuori dalla caverna. Se le idiozie delle Karen progressiste americane sono risibili esempi di “wokismo” deteriore, mentre quelle delle omologhe israeliane vanno trattate come preziosi documenti con cui determinare le nostre priorità sociali, allora forse abbiamo quantomeno un problema di doppiopesismo.

Non si possono destinare incisi asettici o in funzione concessiva a una guerra unilaterale e asimmetrica, a un genocidio che è nelle scelte politiche rivendicate, e che ha già dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio che non si fermerà di fronte a nessun limite imposto dai fondamenti del vivere civile e dell’umanesimo post-Illuminismo.

Quel che Israele sta facendo a Gaza, secondo qualsiasi metro di ragionamento onesto, non è il contorno sgraziato delle singole storie di maltrattamento che forse – o, chissà, forse no – riguardano questo o quell’israeliano all’estero, da innalzare regolarmente ad Esempio (era accaduto anche ad Amsterdam a novembre), ma il fulcro di un discorso che non stiamo nemmeno provando a imbastire.

Le bombe sui civili inermi e i soprusi del governo Netanyahu sono il motivo principale per cui l’immagine internazionale di Israele è radicalmente mutata, anche all’interno di corpi sociali che fino a poco tempo fa non avevano nessun pregiudizio ideologico verso il sionismo. E per essere chiari: questo non significa certo che gli ebrei che finiscono discriminati in Europa o altrove se la siano cercata, com’è ovvio; ma per risolvere i problemi bisogna anzitutto riconoscerne le cause, non confinarle a una postilla che fa da disclaimer al caso del giorno.

La ristoratrice Nives Monda non è un’eroina, Gili Moses non è una martire: sono due donne che si sono messe a litigare su una situazione molto più grande, consequenziale ed epocale di quel che un pranzo in un ristorantino di Napoli potrà mai essere.

Eppure da giorni noi parliamo di loro due, di quel ristorantino, di questo caso specifico, continuando a grattare la superficie della diatriba minuta in modo che appaiano tracce dei fossili che vogliamo rinvenire.

È un modo triste e in definitiva stupido di occuparsi degli avvenimenti che cambiano la Storia: semmai, significa incistarsi nel reame delle storielle.

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