Salvare il mondo S.p.A.


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«Spaventata dai cambiamenti economici sostanziali e dall’incapacità del governo di fornire soluzioni durature, la società si rivolge sempre più alle aziende, sia pubbliche che private, per trovare soluzioni alle questioni sociali ed economiche più urgenti».

Queste le parole di Larry Fink, il miliardario a capo della società di gestione di investimenti BlackRock. Il messaggio era stato scritto nel 2019 nella lettera che, come ogni anno, aveva inviato agli amministratori delegati delle aziende in cui la sua compagnia investe. Il documento era stato la tribuna da cui Fink aveva fatto proseliti su quelle che, a suo avviso, erano le responsabilità delle aziende nei confronti della società.

Il grande investitore aveva dipinto un mondo cupo, in cui i mercati finanziari erano incerti, la fiducia era venuta meno, i salari erano stagnanti e la tecnologia una minaccia ai posti di lavoro. Il risultato, a parer suo, sarebbe stato un’ondata di disordini sociali che, in tutto il mondo, si sarebbe espressa attraverso «rabbia popolare, nazionalismo e xenofobia».

Gli Stati democratici erano disfunzionali, mentre la fiducia nelle istituzioni pubbliche andava deteriorandosi. Che fare dunque per uscire da questi tempi bui? La sua risposta era che la gente chiedeva che fossero le imprese a trovare le soluzioni. Che si tratti di protezione dell’ambiente, di redditi pensionistici sostenibili, di disuguaglianza di genere o di discriminazione razziale, le aziende, secondo Fink, devono prestare il proprio soccorso. «Il mondo ha bisogno della vostra leadership», spiegava agli amministratori delegati animato quasi da una certezza morale.

La posizione che aveva assunto non era stata un cambiamento radicale da parte sua. Rafforzava quanto aveva già espresso nella lettera del 2018 a quegli stessi amministratori. In quella missiva, Fink insisteva anche sul fatto che «la società si rivolge sempre più al settore privato e chiede alle aziende di rispondere alle sfide sociali più ampie». Il messaggio era chiaro: «La società esige che le imprese, sia pubbliche che private, abbiano uno scopo sociale».

[…]

[Si contano] tre tipi di reazione alle lettere di Fink per gli AD in merito agli impatti e alle finalità sociali. La prima è quella di abbracciare il suo pensiero per la sua dedizione nei confronti della società. La seconda è condannarlo per aver messo in circolazione una nefasta agenda politica sinistroide ed ecologista, che distruggerà la bellezza lucrativa del capitalismo aziendale. La terza è tornare a celebrarlo, non per le sue credenziali sociali, ma perché ha trovato un modo attuale di fare soldi usando l’impatto sociale come nuovo motore del valore per gli azionisti.

Quest’ultima posizione presuppone che il suo approccio sarà quello che salverà il capitalismo aziendale. La prima è ingenua, se non addirittura credulona. In sostanza, la seconda e la terza rimangono posizioni economicamente conservatrici nei valori espressi, anche se in disaccordo sui mezzi che meglio garantiranno la longevità del sistema aziendale.

Vi è però una prospettiva ulteriore, più politica e ben più inquietante, da me sostenuta in questo libro. E cioè che il capitalismo woke sia uno stratagemma da parte delle imprese per assumere il controllo della democrazia. È un mezzo attraverso il quale le società private stanno cercando di sottrarre il potere politico ai governi per trasferirlo nelle proprie mani.

Per rendersene conto, non è necessario leggere troppo tra le righe delle lettere di Fink. In quella del 2018, egli aveva ammesso che dalla crisi finanziaria globale del 2008 «chi detiene il capitale ha raccolto enormi benefici», mentre chi ne è sprovvisto ha risentito di «una bassa crescita dei salari e di sistemi pensionistici inadeguati». Il risultato, afferma il grande investitore, è un mondo polarizzato tra chi ha e chi non ha, lasciando intendere che questa polarizzazione rappresenta un rischio per la ricchezza delle persone che ha appena classificato come «coloro che possiedono il capitale».

Ecco che, improvvisamente, l’alta morale di Fink in materia di scopi sociali appare più un interesse personale dettato dalla classe di appartenenza. Sarebbe anche legittimo domandarci se la sua preoccupazione per le persone prive di capitale sia frutto di un genuino senso di giustizia e di premura per gli altri. Potrebbe essere, invece, frutto dell’ansia che emerge allorché la classe di miliardari a cui appartiene viene colta dal timore di aver spinto le disuguaglianze del capitalismo talmente oltre il limite che gli scontenti potrebbero, infine, ribellarsi?

Non occorre esagerare o sovrainterpretare, poiché è lo stesso Fink ad affermarlo chiaramente senza bisogno di analisi. Nella sua lettera del 2019, egli ammette infatti che le grandi disuguaglianze create dal capitalismo hanno «alimentato rabbia popolare, nazionalismo e xenofobia». In altre parole, il fatto che il capitalismo attuale abbia creato delle disuguaglianze così enormi costituisce una minaccia all’esistenza stessa del capitalismo.

Questa minaccia, sostiene Fink, non viene dal socialismo, bensì dal fascismo. Se le aziende non interverranno collettivamente, c’è il rischio, secondo lui, che subiscano gli effetti su larga scala di un «grande sconvolgimento politico ed economico».

Le sue parole, apparentemente di buon cuore, appaiono improvvisamente come l’espressione di una profonda paura. Il timore che quello che lui definisce uno «sconvolgimento economico» possa addirittura mettere a repentaglio il capitalismo stesso. La proposta di Fink non è quella di ripristinare i valori democratici di uguaglianza e solidarietà, ma che le imprese assumano – se necessario, in modo ostile – le funzioni del governo. Se non lo faranno, il suo timore è che il sistema sul quale poggia la disuguaglianza di cui lui stesso beneficia rischi di essere distrutto.

Lo scopo del capitalismo woke si rivela, dunque, quello di salvare il capitalismo stesso. Fink ha sostenuto esplicitamente che sia l’opinione pubblica a chiedere l’intervento delle imprese, poiché i governi hanno fallito. Nel 2019 egli aveva infatti dichiarato il «fallimento del governo nel fornire soluzioni durature» all’incertezza economica, così come nel 2018 aveva parlato di «governi che non si preparano al futuro» per quanto riguarda la sopravvivenza finanziaria dei lavoratori.

Con lo stile che si addice a un banchiere d’investimento, anziché cercare di aggiustare un sistema democratico a pezzi, Fink propone un’acquisizione ostile da parte delle imprese e per le imprese. Come giustificazione adduce il fatto che siano gli stessi membri della società – ovvero i cittadini aventi diritti politici – a chiedere che le imprese si facciano avanti per colmare le lacune che i governi non sono riusciti a colmare. Questa attestazione nei confronti della “società” costituisce di per sé un’abrogazione della democrazia.

Secondo Fink, la ragione che siano le aziende a dover intervenire è che sarebbe la “società”, cioè la gente, a chiederlo. Asserisce che le imprese abbiano una sorta di mandato democratico di ingerirsi negli affari dello Stato, e questo sebbene lo facciano, innanzitutto, per tutelare i propri benefici finanziari a lungo termine. E ripete: «Gli stakeholder spingono le aziende a intervenire su questioni sociali e politiche delicate, soprattutto perché vedono che i governi non riescono a farlo in maniera efficace».

Il problema fondamentale della soluzione proposta da Fink a un mondo stremato dall’incremento della disuguaglianza economica e dalla reazione populista che ne consegue non è ripristinare la democrazia bensì distruggerla.

Da “Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia” di Carl Rhodes, Fazi Editore, 314 pagine, 20 euro. Per gentile concessione della Bristol U.P. e della Eulama Lit. Ag.

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