La “cultura maranza” non esiste


Quando sono tornato in Italia mia madre si era rifatta una vita. Aveva un nuovo compagno con cui aveva comprato casa nel quartiere di Greco, periferia nord-est della città. Era un appartamento molto piccolo, ma rispetto al Marocco mi sembrava di vivere in una villa. Stavo bene, anche se ricordo che il mio letto era un materasso morbido buttato per terra. Avevo pochi pochi giocattoli, gli stessi da anni, ed ero un bambino piuttosto solitario. Un giorno di fine estate, nel 2001, ricordo che la mamma era in piedi di fronte alla tv senza pretese che avevamo in cucina, il volto stretto fra le mani. Non capivo cosa la turbasse tanto: sullo schermo passavano le immagini – probabilmente di un film – di due grattacieli che venivano colpiti da un aeroplano. Non potevo sapere, allora, cosa fosse l’11 settembre, e il peso che di lì in poi avrebbe avuto nella mia vita. Però da quel giorno gli altri bambini a scuola hanno iniziato a indicarmi e ridere. Mi chiamavano «Osama», come il mio quasi omonimo bin Laden, il mandante dell’orribile strage di New York. Cercavo di non reagire, di inghiottire la rabbia, ma poi non ce la facevo e finivo per litigare e picchiarmi coi compagni di classe. Le maestre ormai mi avevano inquadrato come una testa calda, ma io volevo soltanto difendere il mio nome. Non ero mica un terrorista, io: eppure tutti sembravano temerlo, all’improvviso.

Stenterai a crederci, ma quella che hai appena letto è un’autocitazione; viene da una delle cose più bizzarre e stimolanti che abbia mai fatto: scrivere la biografia di un rapper. Quel rapper si chiamava (e si chiama) Maruego – anche se nel periodo dell’uscita del libro, Autotune (Bompiani, 2018), aveva deciso di cambiare il suo nome d’arte in “Ma Rue” – e un amico di recente l’ha definito ironicamente «il Carlo Marx di tutti i maranza».

Con Oussama Laanbi in arte Maruego, un innovatore della musica italiana, non parlo da anni (anzi: se mi leggi, kho, fatti sentire), ma proprio quel termine, maranza, oggi sembra essere diventato la parola dell’anno: un’espressione dello slang milanese da paninari degli anni Ottanta è finita su tutti i giornali d’Italia, nei telegiornali in prima serata, nelle polemiche sui social media e al centro delle diatribe politiche sulla sicurezza nelle città.

Google Trends e il termine “maranza”

Nell’ultimo biennio, più o meno all’improvviso, di maranza ci si è messi a parlare a ritmo decuplicato: quel che fino a poco tempo prima era stato un magari arrogante, ma in fondo innocuo tamarro, oggi è diventato il simbolo di tutti i mali della società. A Torino il mese scorso Gioventù Nazionale, il ramo giovanile di Fratelli d'Italia, ha organizzato una campagna che ha chiamato «Rifiuta la cultura maranza», comprensiva di poster e volantinaggio culminato in disordini.

A Roma la Lega di Matteo Salvini ha proposto addirittura una «legge anti-maranza», presentata con un orrido ma catchy richiamo alla nuova stagione di Stranger Things e che, di fatto, grafiche furbette a parte, cercherà di rendere (ancora) più complesso per gli stranieri ottenere la cittadinanza italiana.

Sono nato e cresciuto in un quartiere tutt’altro che “bene”, e da dieci anni vivo in via Padova a Milano: di maranza ne ho conosciuti, incontrati o soltanto visti centinaia e centinaia. Nessuno di loro finora mi ha mai fatto, o mostrato di volermi fare, nulla di male. E attenzione: questo non significa che, a livello più generale, le grandi città italiane siano prive di problemi di sicurezza causati anche da bande di minorenni che vivono in mondi paralleli di testi trap e bravate da postare sui social (Don Alì, un autonominato maranza popolare su TikTok, è stato arrestato in questi giorni per aver minacciato in gruppo un maestro elementare). Conosco persone che ci sono passate, trovandosi nel posto sbagliato al momento sbagliato, e sono certo che non sia nulla di piacevole.

Il punto, semmai, è che dare ai problemi diversi di una società complessa una singola definizione in direzione razzializzata contribuisce solo a creare un colpevole dai tratti riconoscibili, un capro espiatorio comodamente Altro su cui concentrare l’esasperazione e il senso di insicurezza. Ti hanno rubato il portafogli? Ti hanno sfondato i finestrini dell’automobile? Il quartiere è diventato invivibile? Beh, sicuramente sono stati i maranza.

E chi l’ha detto? Sul Corriere Fiorentino all’inizio del 2023 il linguista dell’Università di Firenze Marco Biffi ammoniva, giustamente, sulle insidie di un uso mediatico così superficiale e polarizzante del termine:

Vedo un rischio in questo modo di usare le parole; e chi le usa per professione dovrebbe saperlo. Il fatto che in gruppi di violenti ci siano anche alcuni maranza non significa, ovviamente, che maranza significhi violento. Così si rischia di marchiare inutilmente, con facili e superficiali sovrapposizioni, migliaia di ragazzi che non farebbero e non fanno del male a nessuno, e che semplicemente aderiscono giovanilmente, come avviene in ogni generazione, alla moda di un momento.

Nei luoghi di elezione della diffusione di questi trend, cioè i social, peraltro almeno inizialmente queste pose erano orientate a rappresentare una figura smargiassa ma in buona sostanza inoffensiva, di cui ridere fra coetanei. Poi l’intervento a gamba tesa della politica e dei media, in cerca di colpevoli a buon mercato da additare su quelle stesse piattaforme, ha creato un nuovo fronte di divisione innervato di una mai sopita xenofobia.

Il giornalista Gabriel Seroussi, autore di La periferia vi guarda con odio. Come nasce la fobia dei maranza (Agenzia X, 2025), sostiene che «che la figura del maranza incarni due delle categorie sociali più temute dalla maggior parte degli italiani: i giovani e le persone non bianche».

Continua Seroussi:

Non è un caso che queste paure si siano palesate in maniera più netta negli ultimi anni, quando, per la prima volta in Italia, sono emersi i bisogni, gli interessi e le ambizioni delle cosiddette “seconde generazioni”.

È esattamente così: quando avevo 15 o 16 anni io, i “maranza” – soprattutto in provincia – erano ancora pochissimi, isolati, disorientati rispetto alle loro radici e al loro bagaglio culturale; oggi invece gli adolescenti, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione di massa, sono esposti alle diverse ramificazioni della loro stessa immagine e alle storture sociali che portano con sé.

Prima di tutti gli scippi, le bravate, i video virali condivisi dall’europarlamentare leghista di turno, i crimini delle baby gang e le notizie sulle “ronde anti-maranza” che da qualche tempo riempiono la nostra dieta informativa, dovremmo parlare delle condizioni materiali delle città in cui il fenomeno si dispiega, e di ciò che le ha create.

Nel quartiere torinese di Barriera di Milano – quello dove è stato arrestato Don Alì e quello dove hanno volantinato i giovani di Fratelli d’Italia – si respira un’aria di ritiro completo dello Stato da almeno 15 anni. La politica locale e nazionale ha scelto, deliberatamente, con le sue opere e soprattutto con le sue omissioni, di creare questo e tanti altri quartieri-ghetto in cui spingere i poveri, gli ultimi arrivati e gli indesiderabili della società.

L’inevitabile conseguenza è che in questi luoghi la legge non esiste, perché non esistono istituzioni capaci di fornire riconoscimento e appartenenza ai cittadini. Barriera di Milano e gli altri quartieri dei maranza sono la polvere spazzata sotto al tappeto per anni, finché all’improvviso sotto quel tappeto si è formato un rigonfiamento che, non si sa come, indigna anzitutto gli stessi responsabili di una pulizia così ipocrita e sbrigativa.

Dopo aver citato me stesso in sua vece – un po’ di sano lavoro su noi stessi, se vogliamo di stampo decoloniale, dobbiamo farlo tutti – passo a citare direttamente qualche rima di un vecchio successo di Maruego:

Ho sentito un tipo che ha un amico che ha una barca
/ che se lo fai contento poi lui ti accompagna
/ Spagna, Francia, Olanda, Italia
/ in cerca di un Paese, in cerca di rivalsa
/ Storie di immigrati in cerca di speranza
Najat e Ahmed sono sulla stessa barca.

• E se il woke fosse sempre stato uno strumento del capitalismo? (dietro paywall, grazie a Silvio L. per la segnalazione);

  • Perché ci siamo trovati tutti a parlare di quella benedetta famiglia che vive nel bosco (a parte “per la legge spietata degli algoritmi”, si intende);
🫰
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