I Mondiali degli altri


E dunque sono iniziati i Mondiali di calcio, che a questo giro sono in Qatar, un Paese ospitante in cui nell’ultimo decennio sono morti diversi lavoratori – in grande maggioranza migranti: la stima precisa è oggetto di discussione, ma si parla di migliaia di vittime – impegnati nella costruzione delle infrastrutture per l’evento, e che negli ultimi giorni è stato ampiamente criticato per la sua nota discriminazione sistematica di donne, omosessuali e altre minoranze.

Se anche il calcio non dovesse essere la tua cup of tea – e dunque non fossi d’accordo col caro vecchio George Bernard Shaw, quando sosteneva che questo sport è l’arte di comprimere la storia universale in 90 minuti – nel campionato del mondo del Qatar ci sono in ballo molte altre cose: il nostro rapporto con culture a noi distanti per valori e per priorità, i rapporti economici di potenze non democratiche con le istituzioni internazionali, e persino la nostra stessa prospettiva sul mondo.

Qualcuno ha parlato di critiche agli emiri motivate da «islamofobia»; diversi hanno offerto accostamenti bislacchi ma molto pensosamente autocritici tra democrazia occidentale e autoritarismo qatarino; si è fatto humor assai nero sul Qatar che fa «cultural appropriation della schiavitù dall’Occidente». Il presidente della FIFA, Gianni Infantino, ha provato ad arginare le polemiche spiegando nella conferenza stampa della vigilia che «l’Europa dovrebbe scusarsi 3000 anni per ciò che ha fatto» prima di obiettare sull’operato altrui (e a me sono subito venuti in mente quelli che, alla notizia della barbara uccisione della povera Saman Abbas, la diciottenne pachistana assassinata dalla sua famiglia a Novellara, Reggio Emilia, per aver rifiutato un matrimonio combinato, hanno commentato che anche in Italia il delitto d’onore è rimasto in vigore fino al 1981: risolviamola con un pari e patta di orrore retrogrado, ma sì).

Siccome si parla di calcio, ho chiesto aiuto a un esperto: il buon Giuseppe Pastore, anche noto come @gippu1, penna raffinata e giornalista sportivo dal ricco e meritato seguito (oltre che un caro amico, detto per full disclaimer). È la nuova puntata di un format di tête-à-tête che ultimamente era un po’ sparito dai radar di questa newsletter e torna a fare capolino con vivo piacere, #CultureWarsMeets.

🗣⚔️ Caro Giuseppe, sei senz’altro la persona giusta a cui chiedere che Mondiale è questo, e perché è così diverso.

È diverso perché è storto, anzitutto dal punto di vista dello spazio-tempo: a novembre, nel pieno della stagione dei grandi campionati europei, o come si dice banalmente “d’inverno” (che poi è autunno, visto che finisce il 18 dicembre). Ignorando che sono 92 anni che argentini, brasiliani e uruguayani giocano il Mondiale nel loro inverno australe, ma vabbè: è uno dei tanti indizi della superiorità morale calcistica che l’Occidente ha dato a se stesso. E poi, ovviamente, è diverso per tante altre ragioni molto più serie, tuttavia nessuna delle quali una primizia nella controversa storia dei Mondiali di calcio.

🗣⚔️ Ecco, hai lambito argomenti che da queste parti sono più popolari della pizza Margherita: l’Occidente, la sua presunta superiorità morale e via discorrendo. A pensarci bene, questi Mondiali sono diversi perché mai così “diverso” è stato il set di valori del Paese ospitante rispetto a quelli in voga nel mainstream occidentale. Mi sono imbattuto in uno dei tanti esempi virali di tifoso arrivato a Doha con una maglietta con l’arcobaleno che è stato costretto a togliersela prima di entrare allo stadio, e della pronta risposta di un qatarino che si diceva «orgoglioso» di quella censura («esistono culture con valori diversi che devono essere ugualmente rispettate»). Ma se ogni approccio va «rispettato» a prescindere – magari perché ha versato generosi flussi di denaro nelle casse di un’istituzione come la FIFA, volendo malignare – come si fa a tracciare una linea tra l’accettabile e l’inaccettabile?

Partiamo dall’inizio: il Qatar ha comprato questo Mondiale, ha comprato i delegati FIFA preposti all’assegnazione, ha comprato i voti dell’UEFA stringendo accordi economici con la Francia i cui effetti si vedono ancora adesso. L’Occidente che alza la voce e strepita di diritti violati non s’è fatto il minimo problema, allora come oggi. Se basta la minaccia di un cartellino giallo a indurre 6 capitani europei su 7 (Galles, Belgio, Inghilterra, Olanda, Svizzera e Danimarca) a fare un passo indietro sulla fascia di capitano arcobaleno, come si possono prendere seriamente tutti questi discorsi? Il coraggio dell’Iran che rimane in silenzio sull’inno nazionale è un pugno nello stomaco dell’Europa, e ne sottolinea l’ormai inguaribile subalternità a culture se vogliamo più violente e sfacciate, ma anche molto più convinte di sé. Poi c’è il capitolo Germania, che almeno ha mandato un segnale e si è mossa compatta portando in Qatar anche il ministro dell’Interno: per antiche attitudini e modernità, mi pare l’unico Paese all’altezza del ruolo di faro sui diritti civili.

🗣⚔️ Questo è un punto interessante, e che merita un piccolo approfondimento: cosa intendi per «questi discorsi», volendo essere più precisi? Perché una cosa su cui insistiamo molto su questa newsletter è come certi marker identitari e politici, se resi una mostrina da esporre sui social media e appropriati dalle logiche del marketing, rischiano di condurre a battaglie di facciata, che crollano come castelli di carte al primo alito di vento. È il caso delle nazionali che hai citato?

Hanno parlato molto, tutti i capitani: Kane, Kjaer, van Dijk, Vertonghen… solo il francese Lloris è stato più prudente, forse perché istruito un po’ diversamente dalle sue autorità. Ma hanno fatto poco, molto poco, alla resa dei conti. Non è una grande metafora del mondo-social in cui siamo sprofondati noi occidentali? Grandi proclami, post impeccabili, campagne molto catchy, poi la realtà è sempre un po’ più complessa. Siamo deboli, poco credibili e questo ci espone alla protervia di un Qatar, che a questo punto si sente libero di cambiare a suo piacimento le carte in tavola (vedi il dietro-front sulla birra, che ha fatto infuriare la Budweiser) a due giorni dall’inizio del Mondiale: tanto, se la risposta del “mondo civile” è così tenera…

🗣⚔️ Sì, e in questo senso mi sembrano tristemente significative anche le parole della conferenza stampa di Gianni Infantino, già assurte al canone del grottesco: se è vero che «per quello che noi europei abbiamo commesso negli ultimi 3.000 anni dovremmo scusarci almeno per i prossimi 3.000 anni» è anche vero che, se la matematica non mi fa difetto, 6.000 anni gettati alle ortiche iniziano a essere tantini, e quindi forse sarebbe meglio iniziare un po’ prima a «dare lezioni», almeno quando in ballo ci sono migliaia di morti innocenti. Te la butto lì: non è che coi Mondiali del Qatar il movimento-calcio si è scoperto meno multiculturale, ma paradossalmente anche meno “forte” di quanto credeva (e voleva convincerci) di essere?

No, è secondo me più una nostra percezione fallace, quella di considerare «calcio» solo la nostra parte di mondo. Solo 7 Nazionali su 32 hanno pensato di sollevare il tema dei diritti civili (nascondendolo poi in larga parte sotto il tappeto alla minaccia di un cartellino giallo, come abbiamo visto). Sette su 32 è poco più del 20%: non è nemmeno tutta l’Europa, visto che all’appello mancano i Paesi dell’Est e anche nazioni come Spagna o Portogallo, dove il tema non è evidentemente così sentito. Lasciando perdere l’enormità del continente americano, mancano tutta l’Asia e l’Africa, che insieme sommano oltre tre miliardi di terrestri ugualmente appartenenti e appassionati al movimento-calcio quanto noi occidentali. Più multiculturali di così!

🗣⚔️ Quindi tu dici, correggimi se sbaglio: se la maggior parte del mondo non tiene a certe buone cause per noi (almeno apparentemente) imprescindibili, non è detto che su quelle buone cause si misuri la “forza”, almeno culturale, del movimento. Ma se è vero questo, allora anche le varie campagne sul «No to racism» e i codici di comportamento FIFA sono poco più che neve al Sole, e quella dello sport motore di rispetto e inclusione ne esce come una specie di leggenda metropolitana.

Ancora una volta, ci stiamo facendo tradire dalla nostra percezione del mondo. Noi occidentali possiamo fare tutte le campagne che vogliamo su inclusione, rispetto, no al razzismo, no al sessismo, no al cyber-bullismo, e come si fa a non essere d’accordo? Ma poi c’è un’altra parte di mondo che organizza una cerimonia d’apertura di un Mondiale e in oltre mezz’ora non inquadra nemmeno una donna. Da occidentali naturalmente siamo lontani mille miglia da questa visione del mondo, ma non possiamo negare che esista. Un pregio perverso di Qatar 2022 è portare alla luce del sole queste profonde differenze culturali, che per certi versi sono anche affascinanti nella loro programmatica incompatibilità: differenze e punti critici che ovviamente erano ben presenti a quelli che hanno venduto il Mondiale al Qatar nel dicembre 2010, e che non li ha minimamente impensieriti. Va anche detto che ovviamente esistono Paesi musulmani molto più tolleranti del Qatar, e naturalmente anche molto meno ricchi – chissà se le due cose sono collegate.

🗣⚔️ Va bene, va bene, adesso, per citare il signor Wolf, basta farci le culture wars a vicenda: chiudiamo parlando un po’ di calcio giocato, come si diceva una volta. Quali nazionali dovremmo tenere d’occhio, e alla fine secondo te chi la spunterà (e, volendo allargarci, perché)?

Il Brasile e la Francia sembrano avere qualcosa in più della concorrenza, soprattutto per ricchezza e profondità della rosa; è anche vero che in un Mondiale di sette partite chi parte forte quasi mai arriva a dama. Potrebbe essere un torneo deciso dal genio tattico di un allenatore: da questo punto di vista occhio all’Olanda di Van Gaal e soprattutto alla Spagna di Luis Enrique, due allenatori che hanno anche vinto la Champions League con i club e, rispetto agli altri colleghi, possono trovare più facilmente la chiave per eventuali correzioni in corsa.


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