Morti bianche

Quando abbiamo smesso di capire il mondo? È il titolo di un bel libro dello scrittore cileno Benjamín Labatut edito da Adelphi, perfetto per parlare del presente: in nessun altro periodo della storia recente ci siamo trovati di fronte un sistema di segni, codici e sensibilità sociali così messo in crisi, polarizzato e ostaggio di scontri sempre più arcani e irrisolvibili.

Culture Wars ogni venerdì parlerà di casi in cui queste dinamiche agiscono e riplasmano il mondo, in Italia e all’estero. Non userà espressioni-richiamo come «dittatura del politicamente corretto» o, quando possibile, «cancel culture», né qualsiasi cosa che banalizzi un discorso importante e che è ora di fare insieme. Questa è la seconda puntata.


Davide Giri e il gioco a punti

Nei giorni scorsi si è parlato della tragica morte di Davide Giri, trentenne originario di Alba e ricercatore alla Columbia University, ucciso barbaramente a pochi metri dalla sua università, ad Harlem, la sera del 2 dicembre. Ad accoltellare Giri è stato Vincent Pinkney, 25enne membro di una gang locale, che negli ultimi 9 anni aveva già messo insieme 11 arresti per rapine e aggressioni.

Federico Rampini, storico corrispondente negli Stati Uniti di Repubblica, ora in forza al Corriere della Sera, ha dedicato alla vicenda un editoriale lungamente polemico in cui accusa la stampa liberal americana di non aver dato abbastanza risalto alla vicenda per via dei suoi protagonisti (cioè: un bianco nei panni della vittima e un nero in quelli del carnefice). Scrive Rampini:

Si sa quasi tutto di colui che ha selvaggiamente aggredito il ricercatore italiano mentre rientrava alla Columbia University dopo una partita di calcio. Ma nessuna di queste notizie è visibile sul New York Times. Giornale di riferimento per la città e per la nazione. Eppure distratto e reticente su una tragedia avvenuta nel cuore di Manhattan. Nome, cognome, età dell’assassino sono le scarne notizie fornite ai lettori.
L’articolo di cronaca è stato confinato nelle pagine locali, con scarsa visibilità. Sul sito del giornale, alla prima versione non è seguito alcun aggiornamento

E ancora:

L’interesse del quotidiano, e il vigore investigativo messo in campo, sarebbero stati diversi se le parti fossero state rovesciate. Se cioè la vittima fosse stata afroamericana e l’omicida un bianco; a maggior ragione se quel bianco fosse stato un membro di qualche organizzazione che predica e pratica la violenza, per esempio una milizia di destra. La tragedia sarebbe finita in prima pagina, un team di reporter sarebbe stato mobilitato per indagare l’ambiente dell’omicida, la sua storia e le sue motivazioni.

L’autore comunica un messaggio inquietante: «Il “nuovo giornalismo” militante e condizionato dalla sua agenda ideologica» (cito ancora) non si fa problemi a nascondere le morti dei ricercatori bianchi a opera di killer a sangue freddo neri, perché «la ricerca di equilibrio o imparzialità è considerata una debolezza».

Ma è davvero così?

Sì, la morte di Giri è stata effettivamente coperta con un articolo pubblicato nella sezione locale del New York Times, quella dedicata alla cronaca newyorkese. Ma la spiegazione può essere molto più semplice di quella offerta da Rampini: a New York soltanto nel 2020 si sono registrati 447 omicidi, cioè più di uno al giorno. Per fare un raffronto, nello stesso periodo le morti violente sono state 10 a Milano e 18 a Roma (dati Sole 24 Ore): al netto della sua «agenda ideologica», è possibile che il giornale abbia semplicemente trattato il fatto come una notizia di cronaca che, ancorché terribile, riguarda un crimine a cui una parte dei suoi lettori è amaramente abituata.

Senza contare che una rapida ricerca su Google rivela che la pagina della cronaca di New York del Times non è affatto una sezione priva di rilievo, o dove vengono confinati fatterelli di terz’ordine: ci sono finiti, solo negli ultimi anni, l’uccisione del boss del narcotraffico Alpo Martinez, il brutale assassinio di un bambino di dieci anni, custodi freddati dalla polizia, cadaveri di donne comparsi negli inceneritori di un condominio, orribili storie di violenza domestica, e l’orrendo assassinio di un’altra studentessa bianca, la diciottenne Tessa Majors. Tutte tragedie occorse ad Harlem (e l’ultima dell’elenco proprio a Morningside Park, il parco dov’è stato assassinato Giri).

Una nutrita compagnia ha sostenuto, per citare la formulazione che ne ha dato il Giornale, che Davide Giri sia stato «ammazzato in quanto bianco, in quanto italiano», giocando a trovare il presunto doppio standard della sinistra per Black Lives Matter: ma è inverosimile pensare che l’assassino di Giri, Vincent Pinkney, che l’ha colpito alle spalle alle undici di sera in un parco con vaste zone scarsamente illuminate, e a dicembre, abbia potuto sincerarsi della gradazione di colore della pelle o della provenienza della sua vittima.

Che il New York Times possa aver maturato – sull’onda di movimenti e pressioni largamente positivi, peraltro – una certa “militanza” è provato dai discorsi e dalle dispute che hanno attraversato la sua redazione negli ultimi anni (si veda ad esempio la scelta di scrivere «Black» con la maiuscola). Ma la polemica di Rampini e sodali serve soltanto a se stessa, contamina le acque (cosa c’entrano gli inginocchiamenti per Black Lives Matter con un episodio di gang violence?) e rende il discorso sull’uguaglianza e l’inclusione una specie di giochino a squadre con punti in palio in ogni fatto, anche il più sanguinoso. Che è un modo di fare giornalismo, come dire, pietoso.

Inclusivi ed esclusivi

Sirio è un bambino di 7 anni sopravvissuto a un episodio di “morte in culla” che convive con una tetraparesi spastica e una paralisi cerebrale. La madre, Valentina Perniciaro, racconta la sua vita quotidiana sui social network. Il 21 novembre ha postato un breve video a corredo di una denuncia che per molti suona inaspettata: «La lingua più si fa inclusiva, e toglie distinzioni di genere, più è totalmente illeggibile e incomprensibile per chi ha una neurodiversità».

Il dibattito sulla schwa, il segno fonetico gender neutral introdotto e utilizzato da molti attivisti per rendere il linguaggio inclusivo, è molto acceso: si leggono con frequenza articoli raffazzonati che lo deridono o indicano come un segno di apocalisse imminente, e altri interventi che lo incensano come la prossima inevitabile rivoluzione del linguaggio.

Un aspetto spesso tralasciato, tuttavia, è che la schwa e le sue varianti, come gli asterischi, risultano a loro volta “escludenti” per un’ampia fascia di persone disabili: i dislessici faticano a leggerla, le persone con neuropatologie anche, i programmi di lettura per non vedenti vanno in confusione.

Quel che mi colpisce, però, nella vicenda di Sirio e la sua mamma, è quel «ci mangiano vivi»: possibile che esistano attivisti per l’inclusione disposti a «mangiare vivi» un bambino di 7 anni con disabilità invalidante e sua madre, semplicemente perché hanno criticato l’uso di un fonema?

Potrebbe sembrare una questione di poco conto, ma secondo me non la è: rivela un approccio a questi temi sempre più viscerale e intollerante, che deve preoccupare anche – per non dire: soprattutto – chi li sposa a fin di bene e in modo sincero.

Qualche domanda che faremmo bene a porci: da quando la nostra visione del mondo è diventata così assoluta e intoccabile da non ammettere che possa complicare, o addirittura essere d’ostacolo, alla prospettiva altrui? E poi: perché invece di includere finiamo per escludere, e in malo modo, chi vorrebbe semplicemente una discussione più ampia? Quesiti che, nel caso della schwa, suonano peraltro doppiamente adeguati, dato che la stessa Vera Gheno, la sociolinguista che ne ha introdotto l’uso, ha detto e ripetuto nelle sue interviste:

La questione dell'esclusione di chi ha difficoltà di lettura per me è grave. Per questo io penso che saranno le nuove generazioni con una visione più fluida della vita e del genere a trovare una soluzione a cui noi non abbiamo pensato

Altre news dal fronte

  • La morte della regista Lina Wertmüller, grande signora della commedia italiana, mi ha portato a partecipare a una discussione su Facebook che diceva, in sostanza: dirigere la serie su Gian Burrasca degli anni Sessanta, quella con Rita Pavone nel ruolo del protagonista, oggi porterebbe Wertmüller a essere additata come paladina del politicamente corretto contro le tradizioni. Una nota che ha senso, ma che mi ha fatto riflettere; perché io in realtà avevo pensato anche all’esatto contrario, e cioè a come sarebbe accolto oggi su Twitter un film come Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto, in cui una donna viene ripetutamente schiaffeggiata e definita «bottana industriale». Mi paiono entrambe riflessioni da fare;
  • Un recente sondaggio nazionale americano ha scoperto che la parola Latinx, introdotta in ambito accademico e nei contesti dell’attivismo per riferirsi in modo neutro ai latinos, a questi ultimi non piace neanche un po’: solo il 2% dei latinoamericani si definisce in questo senso, mentre addirittura il 40% trova il termine offensivo. È il grande problema di sostituirsi alle persone, illudendosi di dar loro “voce” e rappresentanza;
  • Parlando di film ormai invecchiati, Vice ha chiesto ai teenager di oggi di dire che ne pensano dei teen movie degli anni Novanta, da American Pie a Ragazze a Beverly Hills: ne risultano inevitabili stroncature, e probabilmente non del tutto sbagliate. Personalmente, ho trovato eloquente e degno di approfondimento l’approccio a face value degli adolescenti di oggi: se una scena è costruita per essere esagerata e offensiva, sta sicuramente propagandando una certa forma di legittimizzazione dell’offesa, del sessismo e del razzismo. Forse negli anni Novanta, oltre che più buzzurri e generalmente meno progrediti sotto il profilo della sensibilità, eravamo anche più capaci di ammettere il registro ironico-demenziale.
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