Contro la ferocia del sassolino


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Nella serata di domenica 14 gennaio in prossimità delle acque del fiume Lambro a Sant’Angelo Lodigiano, in provincia di Lodi, è stato trovato il cadavere di Giovanna Pedretti.

La donna 59enne era diventata – come si dice – virale pochi giorni fa per una sua risposta alla recensione pubblicata su Google da un avventore della pizzeria di cui era titolare in paese, Le Vignole, il quale si era detto «non a suo agio» per aver cenato accanto a ragazzi gay e disabili. Nella sua risposta, Pedretti lo invitava a non tornare a Le Vignole in quanto persona non gradita.

In seguito erano sorti dubbi sull’autenticità dello screenshot fornito dalla donna – tra gli altri, la giornalista Selvaggia Lucarelli aveva dedicato ampio spazio alla vicenda, definendo «questa Giovanna Pedretti» una persona resa indebitamente «un’eroina» dalla stampa mainstream – e il vento aveva iniziato a spirare in direzione contraria, portando addosso alla ristoratrice un coro altrettanto virale di accuse e insulti. Infine, il tragico epilogo.

Ci sono alcune importanti linee guida da tenere a mente, quando si scrive di suicidi: la prima, e senza dubbio più rilevante, è che bisogna convincersi che il più inappellabile dei gesti non segue mai logiche lineari, e dunque si deve resistere alla tentazione di legarlo indissolubilmente a un motivo particolare. Così cercherò di fare anche io qui.

Tutto – i tempi, i modi, le dinamiche – fornisce indizi in una direzione, ma appunto: resistiamo. Anche cercando di non saltare a conclusioni irraggiungibili, tuttavia, non possiamo chiudere ancora una volta gli occhi di fronte a quelle verità che conosciamo già da tempo.

Perché sappiamo – e lo sappiamo, ormai, bene – che il nostro firmamento è pieno di stelle cadenti prima rapidamente innalzate e poi bruscamente portate alla collisione da forze gravitazionali che siamo noi a mettere in moto ogni giorno; conosciamo i nomi i cognomi, a volte i numeri di tesserino Odg delle persone che nella vita, per ruolo pubblico, per malintesa missione civica o feroce specializzazione professionale indirizzano gogne, appongono marchi d’infamia e rovinano vite di passanti variamente considerati in errore; e iniziamo anche a subodorare che se questa prassi è la nostra pistola di Čechov, allora l’arma si è messa a sparare troppe volte e all’improvviso, lasciando i personaggi spaesati e la trama azzoppata.

Giovanna Pedretti non era Vera Gheno, la sociolinguista che più o meno nelle stesse ore, per un caso molto diverso con alcuni fenotipi simili, si districava fra insulti corali e rimproveri sprezzanti di vario grado. Gheno era stata accusata di ignavia in malafede per non aver postato sulla situazione a Gaza, e ne erano nati giorni di polemiche e screenshot infamanti. Lei l’ha definita una «serrata shitstorm», le ha di certo portato via tempo e serenità, ma quantomeno sui social Gheno, che si occupa di linguaggio e comunicazione e proprio alle shistorm ha dedicato un libro, sa orientarsi: è legittimo immaginare che la quasi sessantenne Pedretti di fronte alla gragnuola di insulti si sia sentita sbalzata di sella.

In un’analisi che condivido in parte, il mio amico Raffaele Alberto Ventura ieri ha scritto:

Visto che non impariamo mai, l’unica risposta alla gogna di ieri sarà la contro-gogna di domani. Perché se c’è una vittima ci deve essere anche un colpevole. Ma che facciamo quando il colpevole è distribuito, frammentato, vaporizzato, polverizzato? Quando il male è risultato di tante piccole azioni tutto sommato innocenti? Quando magari un commentino, una condivisione, un like, uno sguardo lo hai dato anche tu? E avevi diritto di farlo, forse persino ragione.

Ventura deriva da questo ragionamento la conclusione che col tempo impareremo naturalmente la grammatica di una nuova ecologia della comunicazione, ma io sono più scettico: se anche oggi ci dispiace per la sociolinguista e domani saremo affranti per la signora bersagliata che arriva al gesto estremo, nulla mi fa pensare – o anche solo sperare – che dopodomani non azioneremo le stesse leve che abbiamo premuto oggi, o non lanceremo il nostro solito, su due piedi innocuo sassolino nello stagno dell’engagement.

Continueremo a farlo non perché siamo diventati persone orribili, almeno a prima vista o nel complesso, ma perché l’intero sistema comunicativo che ci è stato costruito attorno porta a spazzare la responsabilità sotto al tappeto della viralità, frammentandola nel rivolo di concorsi di colpa tipico delle dinamiche di massa. Era Elias Canetti a scrivere che «solo nella massa l'uomo può essere liberato dal timore d'essere toccato».

La sorte terribile di Giovanna Pedretti, il fatto che è una vittima nostra (sì, mia, tua, della tua amica che si è appena iscritta a Threads, di tuo cugino che posta foto degli sconosciuti in metropolitana, dell’influencer/debunker invitato in prima serata, eccetera), mi fa pensare che gli antidoti non serviranno, se prima non la smetteremo col veleno.

Dobbiamo interrompere subito, oggi, il nostro sostegno attivo alla barbarie sistematizzata che i pifferai magici dell’età dei social media rendono possibile e profittevole. Non possiamo più innalzarli e dargli valore, prestigio, seguito. Abbiamo il dovere di renderci conto che la leva aziona sempre il bulldozer e il sassolino porta strutturalmente alla frana, e abbiamo anche il diritto di sapere che le piattaforme, spacciate per oasi di libera espressione di identità, in realtà sono giochi con regole asfittiche che premono nella direzione contraria dell’omologazione, della generazione seriale di stereotipi e della perdita di senso.

Non è questione di prendersela con gli influencer tout court, né si può ridurre il discorso al semplice richiamo a un’etica del buonsenso sul web o all’educazione alle nuove tecnologie: l’orizzonte comunicativo e politico dei prossimi anni sarà imperniato sull’impossibilità sociale di tollerare oltre un Panopticon di mostri in prima pagina, anzi in primo scroll. Ci siamo dentro tutti e tutte, ed è ora di provare attivamente a uscirne.

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