Gli uomini non cambiano


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Giulia Cecchettin ha perso la vita a 22 anni perché il suo ex ragazzo Filippo Turetta l’ha uccisa con più di 20 coltellate e ha abbandonato il suo corpo nelle vicinanze del lago di Barcis, in provincia di Pordenone.

Una storia che conosci, perché se ne parla incessantemente (e giustamente) da giorni, e perché a latere della cronaca si è sviluppato un confronto attorno al tema della violenza maschile e alla società che vi fa sfondo, culminante nelle manifestazioni del 25 novembre, Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne.

A dirla tutta, però, sarebbe arduo sostenere che si è sviluppato un confronto vero: anche stavolta, persino con una giovane donna ammazzata il giorno prima della sua laurea, anche di fronte al più puro orrore della violenza assassina, siamo finiti nel gorgo del posizionamento e delle distorsioni generati dall’engagement algoritmico. Io stesso in piccola parte ho alimentato la macchina che critico, ricordando su Instagram quella volta che la mia compagna ha tenuto testa a un tamarro possessivo che minacciava la fidanzata su un treno stipato di pendolari ignavi, con tanto di chiosa più bella che utile (o forse cringe): «Insegnami».

Non se ne esce, ed è un peccato, anzi peggio: perché effettivamente il genere di cui faccio parte ha urgente necessità di fare quattro passi al di là delle proprie certezze, e tirarsi fuori dalla discussione adducendo che tu in prima persona non hai ammazzato nessuno (oltreoceano direbbero well, good job! Attaboy!) è un modo particolarmente penoso di approcciare il tema.

Qualunque maschio di qualsiasi generazione ha accettato o dato spago a esternazioni più che sbagliate, non è intervenuto in difesa di persone coinvolte in cose che ha visto o sentito non ritenendole fatti suoi, ha conosciuto donne che lottavano contro un uomo opprimente e non le ha aiutate, ha beneficiato di una cultura che l’ha messo sul piedistallo fin dalla tenera età, a discapito di esseri umani perfettamente identici a lui, a parte una coppia di cromosomi.

Dovremmo farlo, questo benedetto discorso, non solo per le 103 donne italiane che hanno perso la vita per colpa di uomini violenti negli ultimi undici mesi, ma anche perché quella violenza e quel senso di possesso delle vite altrui rimangono in circolo e colpiscono tutti, non soltanto le vittime: chi ha avuto a che fare da vicino con storie di oppressione femminile lo sa.

Dovremmo discutere, ma anche stavolta non lo faremo se non in maniera deliberatamente limitata, si diceva, perché il canale di comunicazione su cui farlo è un pugno di piattaforme dove conta solo l’interazione misurabile del contenuto: e così in questi giorni si è assistito a un tripudio di maschi che fanno penitenza e maschi che si dicono colpevoli (quando non si professano direttamente innocenti, appunto), sempre davanti all’obiettivo, sempre in scia dell’hashtag del giorno.

Viviamo nell’epoca che si ferma a parlare della felpa indossata dalla sorella di una ragazza appena uccisa a coltellate, e ci costruisce attorno una miserabile polemica; nell’epoca in cui il «bruciate tutto» di Elena Cecchettin, che ha 24 anni e ha – ricordiamolo ancora, casomai – appena perso la sorella, diventa uno slogan da brandire per fare influencing a buon mercato, l’ennesimo (l’ha fatto persino la Polizia di Stato, e non è andata bene).

Di fatto, e fino a prova contraria, nessuno è immune dal grande inganno dei social media, nessuno esce dal castello dei vampiri di cui parlava Mark Fisher: ben prima che la società patriarcale, la cultura dello stupro e l’educazione dei figli maschi, sul piedistallo algoritmico ci siamo noi; Giulia Cecchettin è l’espediente narrativo a cui chiedere scusa o a cui dire che siamo innocenti, colpevoli, diversi, migliori.

(Piccolo excursus rispetto all’ultimo link del paragrafo qui sopra: dopo averlo inserito in questa puntata ho avuto modo di parlare con Karem Rohana di quella sua storia Instagram, mi ha raccontato da dove è venuta e spiegato – riassumendo – che era sincera, spontanea. Non ho motivo di non credergli, in privato mi ha fatto una buona impressione e bisogna quantomeno dargli atto di essersi trovato a dover gestire all’improvviso un pubblico enorme ed emotivo. Lo scambio che abbiamo avuto mi ha fatto riflettere un po’ su come formo i miei giudizi online, e molto su come internet nel 2023 rende pressoché impossibile non mettersi al centro del palco, a prescindere dalle intenzioni consce: l’ho fatto io con la mia storia, l’ha fatto lui con la sua).

Il not all men, come viene chiamato quell’atteggiamento permaloso e auto-assolutorio di una parte del genere maschile di fronte a casi come quello di Giulia Cecchettin, è una fesseria controproducente. Come lo è (trigger warning, se si dice così: link e citazione di articolo di Guia Soncini in arrivo) sostenere che il femminicidio è la naturale conseguenza di una questione biologica inestirpabile. Eppure ha ragione, Soncini, quando dice – con la consueta, indomita e vagamente insopportabile verve – che «postare “se domani non torno, sorella, distruggi tutto” non serve a far cambiare idea all’ex che sta per ammazzare la tua vicina di casa».

Quel che penso è che abbiamo bisogno di meno influencer chiusi in bolle che predicano a convertiti alimentando conflitti da cui non saranno toccati, e più persone disposte a intervenire concretamente per cambiare la cultura di un Paese e la realtà delle sue disparità sociali: e non saranno i metodi, gli scopi e le retoriche da in-group/out-group di Giorgia Soleri a farlo, mi dispiace. Ha scritto Jonathan Bazzi su Domani:

Non si può pensare che gli assassini di domani smettano di esserlo con l’autocoscienza: le letture semplicistiche e galvanizzanti dei social danno la convinzione di occuparci dei problemi, ma non è così. Creano falò di indignazione ed empowerment, ma la realtà poi, con le sue opacità, le sue contraddizioni, le sue richieste precise e allo stesso tempo diverse di caso in caso, rimane a guardarci.

Siamo sedati da questa valanga di verbosità polarizzate e performative, fatte di frasi sempre uguali, che occultano la verità delle relazioni concrete, dei corpi immersi nel mondo, che violano e soccombono, nonostante le nostre buone intenzioni e le campagne a mezzo Instagram.

In questo tempo, in cui ognuno è brand di sé stesso, nessuno più vuole dire cose scomode: la bestia nera, più o meno ammessa, riconosciuta, è la perdita della reputazione, l’inciampo rispetto alle aspettative della community.

Gli uomini non cambiano, e Mia Martini ce lo spiegava già più di trent’anni fa. Oggi però possono urlare orgogliosamente la loro diversità, oppure diventare virali con la loro nuova consapevolezza, o ancora amplificare le loro presunte virtù con un riquadretto zeppo di termini specialistici postato su Instagram. Oppure, in mancanza d’altro, scrivere la puntata disorientata di una loro newsletter.

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