Sempre nella stessa bolla mi troverai


In un periodo di graduale distaccamento dai social network – un detox che mi sento di consigliare col cuore – questa settimana mi ha portato a scorgere alcune storie: la prima si è svolta a Milano, le altre a Minneapolis e Kansas City. Hanno punti di contatto (tutte riguardano operazioni di polizia e persone nere, per cominciare) ma anche notevoli differenze, e mi hanno dato da pensare.

La prima è quella del centrocampista del Milan Tiémoué Bakayoko, e con ogni probabilità sai di cosa sto parlando: il calciatore è stato fermato dalla polizia nei pressi di Corso Como, nel centro di Milano, per una perquisizione molto brusca avvenuta con una pistola puntata ad altezza d’uomo nella sua auto, secondo la Questura per uno scambio di persona. Una scena forte e impressionante, che sembra inusuale per un controllo. Il video risale al 3 luglio e, per chi se lo fosse perso, è questo di seguito.

È interessante notare quel che succede verso la fine: un poliziotto si reca dal suo collega che sta perquisendo Bakayoko, verosimilmente per informarlo dell’identità della persona che ha costretto a mettere le mani sulla volante; il perquisitore trasecola, sbotta con quella che si immagina essere la contezza di averla fatta grossa, toglie subito le mani di dosso al calciatore del Milan e lo lascia andare.

Si è discusso, in merito a questa scena oggettivamente disturbante, di profilazione etnica (tra gli altri, l’ha denunciata Amnesty International), nonché com’è ovvio di razzismo. La Questura di Milano si è difesa parlando invece di un «incrocio di coincidenze», e spiegando che le pattuglie della zona in quel momento cercavano i responsabili dello sparo di alcuni colpi di un’arma ad aria compressa avvenuto nei dintorni. I colpevoli, ha detto la polizia, erano stati identificati in persone di origine africana a bordo di un Suv nero, e una di esse indossava una maglietta verde. Quando è stato fermato, come si vede nel video, Bakayoko era a bordo di un Suv nero e indossava una t-shirt verde.

I poliziotti si sarebbero comportati allo stesso modo eseguendo un controllo in cerca di sospettati bianchi? La pistola puntata ad altezza d’uomo è prassi comune in casi come questo? (La Questura sostiene di sì, adducendo che cercava uomini armati, ma per crederci in mancanza d’altri elementi ci vuole almeno un atto di fede). Le domande da porsi sono parecchie, e le risposte potrebbero non piacerci. Lo stesso Bakayoko ha detto che «l’errore non mi crea problemi, ma il modo sì», perché «poteva avere conseguenze gravi».

Personalmente, forse ancora più dell’arma puntata, a colpirmi nel video è stato il cambiamento totale di atteggiamento da parte delle forze dell’ordine una volta chiarita l’identità del fermato. Un’inversione a U che sembra dire a chiare lettere: è ricco e famoso, non ci si comporta così. Ma anche i ricchi sparano con le pistole ad aria compressa, volendo, agenti. E una perquisizione che non cambia a seconda delle presenze in serie A del perquisito mi avrebbe messo più a mio agio, ecco.

Quei quaranta secondi di video hanno chiamato reazioni “di pancia”, peraltro comprensibili, in chi l’ha visto. E le reazioni di pancia a volte – come in questo caso – sono ben indirizzate; altre volte lo sono meno, e rischiano di dar luogo a fraintendimenti. A monte, nel caso Bakayoko, c’è un dato di fatto ineludibile per chiunque non voglia chiudere gli occhi: l’Italia è un Paese con problemi enormi e visibili di razzismo, e la polizia mostra con una certa frequenza atteggiamenti riconducibili a xenofobia. Ma il modo in cui reagiamo alle notizie che ci chiedono risposte emotive, specie quando sono filtrate dagli algoritmi (cioè sempre), è un aspetto centrale delle nostre vite connesse che merita una riflessione separata.

È su questo piano distinto che possiamo percorrere i settemila e rotti chilometri che separano Milano da Minneapolis, in Minnesota, dove c’è un’altra storia che vale la pena raccontare, anche se diversa dalla prima sotto molti aspetti. Tekle Sundberg, un ventenne afroamericano affetto da problemi mentali, lo scorso 13 luglio ha preso una pistola e ha sparato verso la casa di una vicina che pedinava da mesi – una donna ventiquattrenne con due figli di quattro e due anni – e poi è salito sulla finestra del suo appartamento al terzo piano della palazzina, sempre con l’arma in pugno. Un team di forze speciali ha raggiunto il luogo e ha provato ripetutamente a contattarlo per sei ore (due di queste sono state trasmesse in diretta da uno streamer, e mostrano i tentativi commoventi del padre di Tekle di portarlo a parlare con la polizia e arrendersi). Alle 4.30 del mattino, dopo il fallimento di ogni dialogo, due poliziotti hanno sparato al ragazzo, uccidendolo.

Come avvenuto in Italia per la prima vicenda (anzi, in magnitudini molto maggiori: anche volendo andare oltre il tragico epilogo, Minneapolis è la città in cui nel 2020 è stato assassinato George Floyd, il punto d’origine delle grandi proteste antirazziste di Black Lives Matter), il fatto ha innescato discorsi sul razzismo che permea le forze dell’ordine e le loro azioni di polizia. Proprio in questi giorni, peraltro, abbiamo appreso che alla Robb Elementary School di Uvalde, in Texas, mentre un attentatore uccideva 21 persone, in maggioranza bambini, 400 agenti sul posto esitavano a entrare in azione. Insomma, anche qui il problema esiste, lo sappiamo.

Dopo la morte di Sundberg sono state organizzate manifestazioni per la giustizia sociale sotto la sua abitazione, per denunciare il suo assassinio per mano dello Stato. A una di esse si è presentata Arabella Yarbrough, la giovane madre che ha dovuto portare in salvo i suoi bambini. Ed era molto alterata.

Per chi non capisse le parole del video qui sopra: oltre a un chiarissimo e ripetuto «this is not okay» rivolto agli attivisti, Yarbrough dice che Sundberg «ha avuto sei ore per scegliere, io ho dovuto scappare coi miei bambini in pochi secondi». E ancora: «Ha cercato di uccidermi di fronte ai miei figli, che ora avranno problemi psicologici per sempre». La donna grida, piange, è ancora scossa dall’accaduto.

A questo punto alcuni partecipanti alla marcia solidale – si sente distintamente nel video – non solo non le credono, ma le urlano dietro, invitandola a levarsi di torno: dicono «this is not the time», «questo non è il momento» o commentano che «she’s having a moment», cioè sta sbroccando; criticano la donna spiegandole (sempre registrati) che non ha molto di che lamentarsi, dato che gli Swat hanno sparato a Sundberg, mica a lei.

È un approccio che dice più di quel che vorrebbe dire sul modo di vedere non solo i fatti di cronaca di questo tipo, ma anche il mondo e le persone: se abbiamo già deciso che quello per cui ci siamo ”attivati”, anzitutto sul piano emotivo, è un caso di razzismo, siamo portati a cercare conferme alle nostre convinzioni più giuste e profonde (conferme che nel caso di Bakayoko si rivelano ragionevoli, ma in quello di Sundberg sfociano nel lisergico, se non direttamente nel crudele). Il problema risiede proprio nel come le cerchiamo: il confirmation bias, per dirla all’anglofona, è un tic che l’architettura dei social ha elevato a standard intellettuale, dividendoci in gruppetti ognuno con la sua realtà preconfezionata a cui attingere.

A Kansas City, in Missouri, a giugno ha avuto rilievo mediatico nazionale la vicenda di Leonna Hale, una donna nera di 26 anni «incinta e disarmata», secondo una testimone che ha registrato un video di qualche decina di secondi che la vede protagonista, colpita da cinque proiettili sparati da un paio di poliziotti nel parcheggio di un discount. Lo schema è pressapoco lo stesso: la polizia americana ha delle scorie di razzismo e profilazione che continuano a prendere di mira in modo sproporzionato i neri, è un fatto documentato e ineludibile. E questa storia non fa che confermarlo: perché non crederle sulla parola? Senonché le prime testimonianze sono state smentite da un pastore religioso locale vicino alla famiglia Hale: Leonna non era incinta. E, stando a un’immagine delle bodycam della polizia, non era nemmeno disarmata. Solo per questo – e per il suo tentato furto d’auto – si è “cercata” le pallottole degli agenti? Certo che no, ed è grave che siano state sparate. Ma nel mentre un Paese intero ha discusso di un caso distorto, lasciando da parte la bigger picture e percorrendo un sentiero di polarizzazione artefatta e sterile.

Poco importa che i genitori di Tekle Sundberg siano apparsi davanti alle telecamere, nel momento di più grande dolore delle loro vite, a esprimere vicinanza per la donna che ha rischiato di morire o perdere i suoi bambini per colpa del figlio. Poco importa che la maggior parte degli inviperiti detrattori di Arabella Yarbrough fossero più bianchi di me – che sono notoriamente pallido, ndr – mentre lei raccontava (condividendone i dettagli) un trauma terrorizzante che le era capitato direttamente la sera prima. Poco importa che la donna abbia perso il lavoro, e in un primo momento, quello del confronto coi manifestanti, la raccolta fondi organizzata per permetterle di tirare avanti avesse raccolto una frazione di una frazione della somma destinata alla memoria di Sundberg (poi anche lei ha tirato su qualcosa, per fortuna). Perché l’appartenenza a un gruppo e lo spirito di corpo vincunt omnia; e noi, alla fine, pensiamo sempre meno con la nostra testa.

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