Hanno ucciso il social network


Nella caldissima settimana appena trascorsa, una notizia ha fatto tremare le fondamenta di internet come lo conosciamo: Meta ha apposto la bolla papale all’aggiornamento più radicale della storia recente di Facebook, che in buona sostanza confinerà tutti i contenuti dei contatti di ogni utente in una nuova sezione separata, «Feeds», di interesse secondario rispetto alla rinnovata architettura della home, la quale premierà video e contenuti virali di terzi organizzati in uno scroll senza fine.

E anche Instagram, pur lasciandosi dietro un profluvio di proteste dei suoi utenti e influencer, sta ufficialmente andando in quella direzione: quella in cui i Reels – brevi video a schermo intero – più visti e commentati di account che non segui domineranno sempre di più i feed e la copertura, a discapito delle immagini e i post delle persone che segui (lo stesso Adam Mosseri, il capo di Instagram, ha dichiarato tra il sommesso e l’imbarazzato: «Credo proprio che Instagram diventerà sempre più un posto per i video»).

In una parola: TikTok, esatto. It's TikTok’s world, we’re just living in it. Non è un mistero che i grandi vecchi – se così vogliamo chiamarli – della Silicon Valley, da tempo col fiato corto e senza grandi idee di rilancio, stiano rincorrendo i numeri di engagement e il modello proposto dalla società cinese ByteDance, proprietaria di TikTok. Cosa significa per noi utenti? Beh, per iniziare che il concetto di social network potrebbe essere al capolinea, almeno per come lo conoscevamo.

Intendiamoci: in quindici anni di uso personale e lavorativo dei social posso contare a dozzine i canti in morte delle piattaforme, che poi si sono regolarmente rivelati prematuri. Ma stavolta sembra esserci qualcosa di nuovo nell’aria di internet. Il grande passaggio dalla prioritizzazione delle interazioni sociali al dominio del content ha raggiunto il suo punto critico, e le multinazionali che gestiscono le piattaforme, per sopravvivere ai tempi di magra in scenari economici non esaltanti, hanno deciso di seguire l’unica via che reputano capace di salvare le loro cash cow: quella della guerra totale per l’engagement e l’attenzione degli utenti. L’esperto di Silicon Valley Casey Newton ha parlato più precisamente di «nuove manovre aggressive per ottenere rilevanza in un mondo in cui è sempre più TikTok a dettare il passo».

«Segnatevi la settimana scorsa come quella della fine dei social network», ha esordito Scott Rosenberg in una interessante disamina pubblicata su Axios. La mia idea, però, è che questa svolta arriva tutt’altro che a sorpresa: negli anni i maggiori social network (Facebook e Instagram, ma anche Twitter) le hanno provate tutte per aumentare le nostre interazioni coi contenuti al di fuori della nostra cerchia di conoscenze e forzare la mano alla viralità. La stessa introduzione dei tasti «Condividi» e «Retweet» di più di dieci anni fa marcava il primo timido passo in una direzione che poi ha segnato l’intero corso successivo dei social network. Perché devo vedere un tweet “virale” di una persona che non seguo? Per quale motivo l’algoritmo mi mostra inserzioni e suggerimenti che orbitano attorno a cose che non mi piacciono? Come mai questo influencer-attivista sta cercando di vendermi uno shampoo? I social network delle origini – quelli in cui potevi connetterti con conoscenti, parenti, amici e compagni parlando di quel che ti pareva, senza che fosse un algoritmo educato all’engagement a modellare la tua esperienza digitale – sono morti anni fa, non certo oggi.

Resta inteso che sì, il modello TikTok è il salto dello squalo di questa tendenza: rappresenta il simbolo del passaggio a un’esperienza online interamente disegnata sulla base dell’acquisizione automatica delle preferenze di milioni di sconosciuti per restituire un feed che non ha nulla di personale, e tutto di virale. Per Rosenberg, «assomiglia molto a una tv mutante con un numero infinito di canali privi di contesto che oscillano tra il chiaro e lo sfocato ad alta velocità». È, insomma – almeno per quanto mi riguarda – l’inferno, e la morte di ogni scambio umano o comunicazione vera e propria.

Ma dovevamo accorgercene prima. Provo a formularlo meglio: aver ceduto a multinazionali private a scopo di lucro buona parte dell’aspetto associativo, espressivo e attivistico delle nostre società è stato un errore, e anche abbastanza tragico. Significa aver messo nelle mani di direttori finanziari della California il modo in cui discutiamo della società e della politica, le leve che regolano la conversazione e i suoi limiti, e – dopo anni di utilizzo intensivo percolato nel mainstream – gli antidoti al veleno algoritmico delle polarizzazioni esponenziali. Come ha scritto il pioniere della Silicon Valley Jaron Lanier nel suo bel pamphlet Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social (Il Saggiatore), un’accurata rassegna dei modi subdoli in cui le piattaforme hanno inquinato i pozzi della vita in società: «Parlare sui social media non è parlare. Quello che dici viene inserito in un contesto dopo che tu l’hai detto, per gli scopi e il profitto di qualcun altro». E ancora: «Sinceramente, sei gentile come vorresti? In quali momenti ti sembra di essere la persona che desideri essere? Quand’è che diventi irritato o sprezzante?».

Certo, a scanso di equivoci i social network hanno anche fatto cose buone, come si dice: quando se ne parla, è impossibile non citare le Primavere arabe (anche se, dieci anni dopo, persino nei luoghi che ne hanno beneficiato la situazione è più o meno al punto di partenza) e il ruolo di post e tweet nella nascita di movimenti di protesta che hanno ottenuto risultati anche tangibili (il #MeToo, Black Lives Matter). Ma tutto questo non è mai stato parte integrante della natura, la visione del mondo e le priorità dei giganti del web: abbiamo voluto vederci del bene – o almeno del neutro contendibile, una tavola bianca da poter usare liberalmente per dipingere trame efficaci, se non proprio rivoluzionarie – ma ci siamo sbagliati. Facebook e Twitter non sono neutrali: vogliono l’engagement a qualsiasi costo. E il costo si è tradotto molto spesso nell’opposto della neutralità, come ci hanno insegnato anni di scandali e marce indietro a metà.

Quando si sente dire che quelle piattaforme, in fondo, hanno dato rappresentanza a nuovi gruppi sociali, o promosso anche incidentalmente l’espansione dei diritti e il «passaggio di microfono» a categorie fino ad allora ignorate, quella che si ascolta è una resa molto parziale e opinabile dei fatti. Tanto che oggi, a quindici anni dalla democratizzazione universale promessa dai social, ci troviamo in un’epoca di perdita di diritti fondamentali e divisioni feroci, mentre i capoccia delle piattaforme miliardarie hanno studiato un modo infallibile per farti vedere contro la tua volontà quel video di un pappagallino che canta.

Altre news dal fronte

  • «Ciò che sta venendo richiesto per davvero, invece di un’etica più cosmopolita, è un provincialismo intellettuale comunicato col linguaggio del puritanesimo morale». Decolonise the curriculum (letteralmente: «decolonizzare il piano di studi») è da tempo uno slogan politico molto in voga nell’accademia anglofona, in particolare nelle sue divisioni letterarie. Tomiwa Owolade, autore britannico nero, ha scritto una gran bella lettera che critica con intelligenza questo approccio da portavoce oltranzisti, che fa del male dicendo di voler fare del bene;
  • Negli Stati Uniti si è discusso di un neologismo inclusivo, «Filipinx», usato dal Comic-con di San Diego in un post di qualche giorno fa per riferirsi alle persone originarie delle Filippine. L’intento era ovviamente benintenzionato, ma secondo molti filippini segnala un approccio paternalistico e occidente-centrico all’inclusione (lo stesso problema che i latinoamericani imputano a «Latinx», d’altronde);
  • Erin Overbey dice di essere stata licenziata dal New Yorker, dove lavorava agli archivi della rivista, per aver sottolineato una serie di disuguaglianze di genere interne alla testata. Overbey sostiene di essersi vista inserire errori negli articoli per motivare la sua cacciata. Il giornale ha definito le accuse «assurde». Secondo un’altra inchiesta invece la donna sarebbe stata licenziata per plagiarismo e cattiva condotta, ma lei ha negato tutto: qui un recap.
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