Un brutto clima


Viviamo tempi straordinari, si dice spesso, ed è vero: tanto per cominciare, non ha mai fatto così caldo. Negli ultimi due decenni l’Europa ha patito le estati più roventi dai tempi del Rinascimento: quella dell’anno scorso, segnata da inondazioni letali in Germania e Belgio, è stata anche la più calda mai registrata, come ha certificato l’osservatorio delle istituzioni europee Copernicus.

E l’estate di quest’anno si sta difendendo fin troppo bene, come sappiamo. Un’insolita assenza di piogge fin dallo scorso inverno ha generato un enorme problema di siccità, col fiume Po arrivato ai suoi livelli più bassi degli ultimi settant’anni. Senza contare che l’aumento delle temperature sta causando con una frequenza sempre maggiore il distaccamento di parti di ghiacciai, talvolta – come nel caso recente della Marmolada – fatale per le persone.

Sono solo alcuni dei tanti e deleteri effetti di ciò che chiamiamo cambiamenti climatici di origine antropica, che la scienza – unanimemente – indica come responsabili dell’aumento della probabilità e dell’intensità dei fenomeni meteorologici estremi. «Unanimemente» non è un avverbio buttato lì: una rassegna della letteratura scientifica peer-reviewed condotta l’anno scorso ha trovato che più del 99% degli studiosi di questi temi concorda nel ritenere che è l’attività umana ad aver generato il climate change.

Non c’è nessun dibattito scientifico in atto, insomma. Senonché il panorama mediatico a cui siamo costretti noi italiani sembra raccontare un’altra storia: quella di un tema ancora sostanzialmente “da decidere”, in cui posizioni diverse e prospettive concorrenti discutono di una materia irrisolta e di difficile interpretazione. Trasmissioni in prima serata – come, di recente, Carta Bianca – invitano in studio negazionisti climatici che dicono apertamente che il lavoro dell’influente Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu è «contestato» (non lo è); climatologi come Franco Prodi trovano spazio su quotidiani stimati come Il Foglio, spiegando in varie apparizioni che il cambiamento climatico «nasce da cicli che sono naturali» (non lo sono, almeno per più del 99% dei ricercatori sul clima); sulle prime pagine di giornali di destra a tiratura nazionale, dopo tragedie come quella della Marmolada, si legge di «gretini» che «strumentalizzano la strage».

Ha scritto la giornalista Stella Levantesi parlando del fenomeno su Internazionale:

C’è un meccanismo di rimozione della minaccia del cambiamento climatico, la quale non viene percepita come qualcosa di imminente e che avrà un effetto diffuso (anzi, che ha già un effetto diffuso), ma come un problema quasi astratto, lontano nel tempo e nello spazio, e che non ci toccherà mai da vicino.

Una situazione sorprendente – in negativo – anche perché all’estero, invece, la situazione, sebbene non migliore, è un po’ diversa. I negazionisti d’oltre confine, pur essendo tutt’altro che scomparsi, hanno cambiato tattiche e parole d’ordine: sconfessare direttamente i cambiamenti climatici non è più proponibile, così la nuova strategia è improntata al trittico «ritardo, distrazione e disinformazione». Sono le parole usate da uno studio recente realizzato in partnership dal londinese Institute for Strategic Dialogue e dal network globale Climate Action Against Disinformation, che ha scovato dati interessanti. Primo fra tutti: le fake news sulle questioni climatiche del 2022, per andare a segno, sfruttano le faglie di divisione e le bolle militanti su alcuni temi tipici delle guerre culturali, dai diritti Lgbt+ alle campagne di vaccinazione, e vengono innestate metodicamente dai “mercanti di dubbi” nelle nicchie più radicalizzate dalle piattaforme digitali.

Studiando dati provenienti dai social media dell’ultimo anno e mezzo, gli autori del paper appena citato si sono accorti che il nuovo centro di gravità permanente della causa negazionista è inquadrare come irrealizzabili le soluzioni di adattamento al climate change, attaccando sul piano personale chi le sostiene; se può permettersi di invocare la de-industrializzazione, è senz’altro ricco, recita lo schema retorico del manuale del climate denier perfetto: la rodata tiritera delle élite contro il popolo, insomma, a quanto pare durissima a morire.

Già nel 2020 avevamo avuto una prova interessante di come le frange antisistema in lotta su Twitter si fossero appropriate del discorso sui cambiamenti climatici: un articolo dell’economista Mariana Mazzucato, “Evitare un lockdown climatico” – che argomentava a favore di una radicale riscrittura del sistema energetico e industriale, per non rischiare di essere costretti a misure più restrittive in un secondo momento – nei gruppuscoli della destra libertaria e complottista era diventato la pistola fumante di una «tirannia climatica» messa in atto dagli stessi malevoli sostenitori del controllo sociale mediante chiusure e vaccini obbligatori. Pura propaganda, ovviamente, ma di quella che in quest’epoca può ritagliarsi un certo successo.

L’obiettivo dei disinformatori climatici, oggi, è rendere il clima solo un altro fronte di guerra delle culture wars, facendolo combaciare con la manovra di copertura di una presunta élite ricca e privilegiata che minaccia attivamente un tenore di vita medio sempre più a rischio. I social network, dal canto loro, come sempre gli facilitano il lavoro: Facebook e Twitter sono fucine di notizie false sull’ambiente, e fanno ben poco per non esserlo.

La soluzione è nelle celebri parole del fittizio professor Randall Mindy, che in effetti si applicano alla stragrande maggioranza dei contenuti virali: «Right, well, Twitter is fucking lying!».

Altre news dal fronte

  • Una bambina di 10 anni vittima di stupro in Ohio è stata costretta a viaggiare verso l’Indiana per abortire, a causa delle leggi del suo Stato portate in essere dalla sentenza della Corte Suprema. Non bastasse, la rete conservatrice Fox News prima ha orchestrato una campagna di diffamazione televisiva ai danni della dottoressa che ha effettuato l’intervento, addirittura esponendo il suo volto in diretta e accusandola di essersi inventata tutto; poi, a distanza di giorni, ha riportato come se niente fosse che la specialista ora rischia denunce – e anche di finire in prigione – per non aver rispettato i protocolli di trattamento dei dati medici (e intanto si è concentrata sulla nazionalità dello stupratore, ça va sans dire). Non riesco nemmeno a farmi venire in mente qualcosa di peggiore di questa storia;
  • Difficile non concordare con Ben Burgis (che scrive su Jacobin, non su La Verità, sia detto en passant per i manichei del venerdì mattina) qui sopra. Tre giorni senza Twitter e riaprendolo mi sembra sempre di essere appena atterrato sul pianeta Urano;
  • La deputata democratica Rashida Tlaib ha definito il New York Times «una piattaforma per l’odio e la propaganda transfobici» dopo che, riporta il suo tweet, il Texas ha appena «presentato articoli del Times come prove» per strappare legalmente gli adolescenti transgender dalle famiglie che li supportano. Parlando di «prove», pare non sia andata proprio così, ma ciò che mi impressiona, tra le altre cose, è come il quotidiano sia regolarmente (e per «regolarmente» intendo ogni giorno) accusato di cose opposte: per qualcuno è diventato l’arma segreta di una presunta “dittatura woke”; per altri, in bolle ugualmente popolose, è qualcosa di pericolosamente vicino al nazismo. La verità, come sempre, sta nel mezzo; ma questo è un «mezzo» che contiene il 98% del mondo reale.

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