Trattori in tangenziale


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Unendo un viaggio stampa al dilettevole, ho passato qualche giorno a Barcellona. Mercoledì, nel primo pomeriggio, mentre mi avviavo a passi spediti per il Passeig de Gràcia, la lunga e prestigiosa via che taglia a metà il quartiere centrale dell’Eixample, ho sentito un coro di clacson particolarmente insistente e acuto.

Con una certa mia sorpresa, a pochi metri dalla Casa Batlló di Antoni Gaudí c’era un’imponente sfilata di trattori di ogni forma e colore, alcuni con enormi rimorchi, altri con le pale anteriori alzate per aria, mentre diversi passanti applaudivano e salutavano il corteo: a prima vista, sembrava un esercito trionfante che percorre la città appena conquistata in direzione del porto. Un esercito di contadini.

Barcellona, mercoledì.

Sapevo della protesta degli agricoltori in corso in Italia e altrove ma, ammetto, fino a quel momento avevo ignorato la portata continentale delle manifestazioni: oltre all’Italia e alla Spagna, i trattori hanno percorso e bloccato le strade di Francia, Germania, Olanda, Grecia, Romania, Polonia.

I motivi che li hanno spinti a farlo sono vari – e in alcuni casi relativi alla situazione specifica del singolo Paese – ma largamente condivisi: un pagamento dei raccolti che è diventato insufficiente a coprire il costo della vita; una concorrenza dei prodotti importati dai Paesi extra-UE considerata sleale, dato che si tratta di materie prime che non devono sottostare ai regolamenti più stringenti di Bruxelles; un framework di leggi comunitarie e decisioni dei governi nazionali visto come ingiusto e penalizzante.

In queste rivendicazioni entra spesso il tema della transizione ecologica: in Olanda negli ultimi mesi la miccia delle proteste si è accesa dopo la richiesta di ridurre le emissioni di azoto equivalente nel settore agricolo; in Germania e Francia gli agricoltori si sono mobilitati dopo i piani – poi rimandati o ritirati – di cancellare le agevolazioni fiscali per i mezzi a gasolio che operano nei campi; in Italia, nel manifesto del Comitato nazionale riscatto agricolo, che giusto ieri sera hanno portato un loro comunicato sul palco del Festival di Sanremo, si legge direttamente di «follie green» e «ideologie ambientaliste».

In Francia, il maggior produttore agricolo dell’Unione europea, le proteste sono diventate particolarmente intense, e sono passate dai blocchi stradali con le balle di fieno nel sud del Paese fino all’ingresso di un grande corteo di mezzi agricoli nel centro di Parigi. «Il mondo sta cambiando troppo velocemente per noi, non sappiamo dove ci troviamo», ha detto al Guardian l’agricoltore Pierre Bretagne, proveniente da Pornic, nella Loira, che guadagna 6-700 euro al mese per la sua produzione agricola biologica.

Quello di Bretagne sembra essere un sentimento diffuso: Natacha Guillemet, che alleva la pregiata razza bovina Parthenaise – venduta nelle boutique più costose di Parigi – a Vouvant, nella Vandea, ha spiegato al quotidiano britannico che alla fine del mese mette in fila le bollette e decide quali pagare, non potendole saldare tutte; Giulia Goglio, lodigiana 28enne alla testa di un gruppo di coltivatori in protesta nel Nord Italia, ha dichiarato: «Quello che m’interessa è far comprendere all’opinione pubblica le difficoltà del mondo agricolo».

La situazione è particolarmente complicata, perché da una parte gli agricoltori sono la categoria produttiva più direttamente toccata dai cambiamenti climatici, ma dall’altra anche la più colpita da alcune delle misure concertate a livello comunitario per combatterli: non è un caso che a fare da trait d’union della protesta, anche e soprattutto in Italia, sia l’opposizione al Green Deal.

Peccato che si tratti di un’opposizione spesso confusa, e ancora più spesso sfruttata sul piano politico: per fare un esempio, due misure largamente citate alle manifestazioni dei trattori internazionali sono il dimezzamento dei pesticidi entro il 2030 e l’obbligo di lasciare il 4% dei terreni a maggese, entrambe già sospese a Bruxelles l’anno scorso.

Con le elezioni europee del prossimo giugno che incombono, gli agricoltori vengono considerati dai partiti populisti un trampolino di lancio – o rilancio – da sfruttare: è accaduto in Olanda, teatro di aspre contestazioni fin dall’anno scorso, col Pvv di Geert Wilders; in Germania con AfD; nella stessa Spagna, col Partito popolare e Vox. In Italia, Giorgia Meloni dopo che le proteste hanno iniziato a fare notizia ha dichiarato che «questo governo si occupa degli agricoltori» e annunciato un taglio dell’Irpef per le fasce più basse di reddito.

Che la politica più spietatamente opportunistica si proclami all’improvviso vicina a produttori del settore primario che non aveva mai calcolato molto, in chiave propagandistica e anti-ambientalista, è un problema bello grosso: senza guardare a quel dettaglio di poco conto delle sorti del pianeta su cui viviamo, se le masse degli scontenti individuano nell’unica fonte dei loro problemi una sorta di “Ztl del green” fatta di burocrati in monopattino, a farne le spese saranno anzitutto loro.

Parallelamente, tuttavia, non credo sia giusto limitarsi a indicare nel fronte dei trattori una nuova incarnazione del nemico. O meglio: non penso basti. [Linko un articolo largamente condivisibile, che contesto su un punto] Sostenere che gli agricoltori «hanno visto un’onda politica» – quella reazionaria dell’anti-ambientalismo – «e hanno deciso di salirci sopra» mi sembra un modo di inquadrare la questione che inverte cause ed effetti: considerate le premesse, è più verosimile che i trattori che occupano le strade d’Europa abbiano deciso di fraternizzare con l’unica parte delle istituzioni che si è mostrata propensa ad ascoltarli (seppure, aggiungiamo noi, in modo del tutto strumentale).

Sarà che tutti i miei nonni erano contadini, e forse soltanto per uno di quei guizzi della storia e del destino oggi non mi trovo anche io immerso in quel loro mondo di rimorchi e prezzi da contrattare per passare l’inverno, ma nella sbrigatività con cui si liquidano molte delle istanze dei coltivatori – figure anacronistiche, spesso con un accesso alle informazioni meno diretto del nostro, e come tali facili bersagli di un classismo strisciante – leggo il chiudere gli occhi di fronte ad alcune disuguaglianze della nostra epoca, quelle meno immediatamente marketizzabili o à la page: quelle delle province arretrate, dei mestieri “di una volta”, dei paesi che non frequentiamo e di cui non sappiamo – né, in fondo, vogliamo sapere – nulla, perché ci crediamo evoluti, in definitiva migliori.

Eppure nel mondo là fuori le proteste degli agricoltori sono popolari, eccome: in Francia il 90% della popolazione si è detta favorevole ai blocchi stradali dei trattori; in Italia la percentuale si attesta sul 70%, e anche nel nostro Paese si è assistito alle scene di acclamazione dei mezzi agricoli che ho visto coi miei occhi nel centro di Barcellona.

Torna a fare capolino il solito vecchio dilemma, un interrogativo che personalmente mi tormenta non di rado: se anche è vero – come è vero – che la transizione ecologica è il minimo indispensabile (e già ampiamente messo a repentaglio) per salvare il salvabile, come si fa a pretendere che chi ne pagherà le prime conseguenze lo accetti in silenzio, o che non si avvicini a quelli che dicono di volerlo ascoltare, anche se sono dei brutti ceffi? Se è certo – come è certo – che esistono un giusto non più rimandabile e uno sbagliato non più accettabile, è giusto che io, dal mio divano a Milano, faccia spallucce di fronte alle sorti di un contadino di Viterbo o Treviso che non riesce a vivere del suo lavoro?

Su questo continuum città-provincia, anche in senso lato, si giocano da almeno un decennio i destini di molta della politica mondiale, e sono sempre più convinto che il progressismo debba farsi carico di istanze che continuano a rimanere lontane dal suo sguardo. Non porterà viralità su Instagram, ma anche il mondo rurale esiste e merita di poter vivere con dignità, persino quando si accoda alle corbellerie su Greta Thunberg e l’ambientalismo.

Tra le mietitrebbiatrici e le pale scavatrici non dovrebbero esserci i populisti olandesi, gli estremisti di destra tedeschi o il ghigno tronfio di Marine Le Pen, ma politici di sinistra che si sono accorti che il sistema attualmente in essere crea, e da tempo, sacche di povertà e ingiustizia materiale, economica, su cui nessuno ferma lo sguardo e l’attenzione. Se non vanno loro a parlare con quelle persone, se non provano a capirle, a rappresentarle, non penso che ci voglia Pellizza da Volpedo per decretare che la colpa non è dei contadini.

Altre news dal fronte

  • È la fine dei social? Secondo l’Economist, che ha dedicato all’argomento una copertina, più che altro sono cambiati: e la loro nuova caratteristica più rilevante è che sono molto poco social;
  • La grande vittoria propagandistica di Vladimir Putin, dopo l’intervista concessa a quello scendiletto di Tucker Carlson;
  • Joe Biden è di nuovo oggetto di accuse di aver perso un po’ di facoltà intellettive (non è vero, per quel che ne sappiamo): ne ho scritto su Esquire.

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