Valvassini di Jeff Bezos


Nel suo Discorso sulla servitù volontaria, databile attorno al 1550, l’allora ventenne umanista Étienne de La Boétie cerca di rispondere a una domanda non semplicissima: perché in ogni luogo e tem­­po della storia, singoli uo­mini – maschile non sovraesteso – riescono a far accettare il loro do­mi­nio alle masse?

O, per dirla con le parole di de La Boétie: «Com'è possibile che tanti uomini sopportino un tiranno che non ha forza se non quella che essi gli danno. Da dove prenderebbe i tanti occhi con cui vi spia se voi non glieli forniste?».

Questa degli «occhi con cui» i tiranni ci «spiano» è una frase che ho cara più o meno da quando mi sono messo a studiare la deriva tirannica delle Big Tech e dei loro signori, a loro volta non meno feudali di quelli che aveva in antipatia questo saggio ragazzotto a metà del Cinquecento.

Magari oggi ci spiano con «occhi» digitali, venduti come citofoni o sistemi di sorveglianza, ma la sostanza rimane invariata: la servitù volontaria è viva e vegeta, e lo sarà finché un solo uomo potrà – torniamo al nostro autore – «soggiogarne centomila, e toglier loro non la libertà, ma quasi anche il desiderio di averla».

Il matrimonio di Jeff Bezos è stata una delle notizie più discusse delle ultime settimane: una Venezia noleggiata, blindata, imbellettata per il matrimonio del sultano, con spazi pubblici, trasporti e luoghi di culto resi inaccessibili ai residenti.

Si è detto che Bezos per queste nozze con Lauren Sanchez ha speso l’equivalente di 23 euro per un italiano medio; si è notato che in Laguna sono atterrati un centinaio di jet privati, a fronte di 200 invitati al matrimonio; ha detto, Bezos stesso, di essere «amareggiato» e sorpreso dalle proteste del comitato No Space for Bezos e dalle polemiche che hanno accolto il suo imeneo.

Ma soprattutto, mi viene da dire, si sono levate voci in difesa di Bezos: il direttore del Foglio Claudio Cerasa ha scritto che «la presenza di un Bezos in Italia, e a Venezia, dovrebbe essere trattata come una manna dal cielo», inserendo nel titolo del suo editoriale che il «circoletto antifa» e anti-Amazon avrebbe «un problema con la libertà»; la ministra Daniela Santanché ha comunicato benefici economici dovuti all’evento per un totale di 957 milioni di euro (ma la cifra pare un pelino esagerata).

Personalmente non credo che la parabola personale e imprenditoriale di Bezos abbia nulla da spartire con la «libertà»: la libertà, come ci insegna de La Boétie, è anzitutto libertà dal dover servire, e nulla è più servile di accorrere in difesa del secondo o terzo uomo più ricco del mondo, e largamente fra i più ricchi della storia, nonché proprietario di una testata giornalistica di rilievo internazionale e di una società che, da sola, orienta e riplasma le sorti del commercio globale.

Quella per Bezos e signora sarà anche «invidia sociale», come è stato detto e ripetuto a destra, ma è un sentimento legittimo, anzi nobile. Prendiamo ad esempio un corsivo firmato da Giovanni Toti sul Giornale, che dice:

A indignarsi se proprio avrebbero dovuto essere le élite più conservatrici, custodi dell'immobilismo sociale. In laguna non si è celebrata la ricchezza ereditaria dei rampolli di casate secolari, cresciuti tra castelli, collegi svizzeri e circoli velici d'élite. No, il matrimonio di Jeff Bezos rappresenta tutt'altro: la dimostrazione plastica di un sistema che [...] continua a consentire l'ascesa di individui di talento, capaci di emergere per merito. Bezos è l'incarnazione dell'ascensore sociale: figlio di una madre adolescente e di un patrigno immigrato da Cuba, ha costruito una delle aziende più innovative al mondo partendo da un garage.

Ma il punto è proprio questo: il «sistema» di cui parla Toti è un tavolo da gioco truccato, con regole da bari secondo cui Bezos ha giocato fin dall’inizio. Ha creato «una delle aziende più innovative al mondo partendo da un garage», certo, ma l’ha fatto anzitutto perché mamma e papà Bezos, cubani o meno, hanno sostenuto l’allora piccola Amazon con un investimento da 250mila dollari nel 1995 – una cosa che i miei genitori non potrebbero fare, tanto per dire.

E non stiamo parlando di un’eccezione: Bill Gates forse oggi non sarebbe Bill Gates, se sua madre non avesse avuto un posto di cda accanto al Ceo di Ibm John Opel, che fece la fortuna della piccola Microsoft facendole sviluppare un primo sistema operativo; Mark Zuckerberg ha aperto Facebook a Harvard, dopo aver imparato a programmare grazie alle lezioni private impartitegli dallo sviluppatore David Newman negli anni Novanta; Elon Musk... devo continuare?

Non saranno rampolli di casate secolari, ma è la cosa più vicina che abbiamo all’impostura di un ascensore sociale che, se esiste, funziona secondo logiche predatorie e spregio della condizione altrui: l’«individuo di talento» Bezos siede su poco meno di 240 miliardi di dollari perché ha costretto migliaia di persone a fare pipì in bottigliette di plastica e si schiera regolarmente contro l’unione dei suoi lavoratori, per cui ha auspicato in tempi non sospetti l’adesione a «marce verso la mediocrità».

Non c’è nulla di meritocratico, in questo. Non esiste un motivo per cui il più rapace debba essere osannato come il più capace; e se c’è chi lo fa, deve sapere che sta soltanto abbassando ulteriormente l’asticella di ciò che è ammissibile per fare profitti e sentirsi legittimati ad affittare per sé interi centri urbani, paralizzandoli.

L’idea di mondo a cui tendono i difensori di Bezos – il quale, si diceva, disponendo solamente del Washington Post e di buona parte del cloud mondiale, necessita di qualcuno che faccia le sue veci – non è solo quella in cui città d’arte da cartolina diventano prodotti di consumo orientati alla rendita fondiaria, ma compone un tecno-feudalesimo dove per il potere privato non valgono le regole della società.

Vorrei dire che questa novella servitù volontaria è un problema esclusivo dei conservatori, ma se lo facessi mentirei. Secondo uno studio della Georgetown University risalente al 2018, i Democratici statunitensi riponevano più «fiducia istituzionale» in Amazon che in qualsiasi altra istituzione o azienda americana, università, college e branche governative compresi.

È facile vedere in persone come Jeffrey Preston Bezos un esempio, un obiettivo o addirittura una fonte di speranza. La realtà, tuttavia, è un po’ più complessa del luccichio plissettato da tappeto rosso del successo: tutti quei miliardi sono frutto di vantaggi acquisiti, ingordigia, insofferenza alle regole e una metodica rimozione di chi dovrà pagare il conto della loro accumulazione.

Nel suo attualissimo manuale di cinquecento anni fa, Étienne de La Boétie scriveva: «I tiranni non sono grandi che perché noi siamo in ginocchio». Se solo non fossimo così anestetizzati da ciò che ci vendono, questo sarebbe un ottimo momento per rialzarsi in piedi.

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